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àrpád Weisz, gloriosa e crudele storia di un grande uomo di calcio

Questa sera allo stadio Giuseppe Meazza si giocherà Inter-Bologna, partita che oltre a essere un quarto di finale di Coppa Italia, si arricchisce di un significato assoluto che esula dal mero passaggio del turno sportivo. Le due squadre hanno...

Lorenzo Roca

Questa sera allo stadio Giuseppe Meazza si giocherà Inter-Bologna, partita che oltre a essere un quarto di finale di Coppa Italia, si arricchisce di un significato assoluto che esula dal mero passaggio del turno sportivo. Le due squadre hanno deciso di dedicare l’incontro ad Árpád Weisz. Il suo nome probabilmente non evoca nella maggior parte dei tifosi odierni rammenti calcistici emotivi degni di nota. Troppo indietro nel tempo per essere attuale. Troppo diverso quel calcio, sceverato dal sovraffollamento di star dementi e ipertatuate che onorano il loro corposo ingaggio saltellando dai campi alle discoteche a Twitter. Árpád Weisz rappresentava un altro calcio, fatto di sacrifici, di vita reale, di conoscenza e formazione sul campo, di difficoltà e mancanza di agi.

Árpád Weisz nacque a Solt, paesino rurale di circa 10mila persone, placidamente adagiato tra il lago Balaton e la capitale Budapest. Tira i primi calci nel Törekvés per poi approdare nell’attuale Cekia con il Maccabi Brno. Lo nota l’Alessandria, all’epoca nella massima serie italiana, che lo porta nella nostrana penisola. Árpád era un’ala sinistra alla Overmars, mancino doc e velocissimo, si serviva di questa qualità per sfuggire ai bodycheck avversari che tentavano di fermarlo. Dal Piemonte si trasferisce all’Ambrosiana Inter nel 1925. Con la maglia nerazzurra gioca 11 partite e segna 3 gol. Colleziona 7 presenze con la maglia della Nazionale magiara, nonostante la sua presenza viene oscurata dalla stella Rudolf Jeny.

Nemmeno 30enne, la carriera del gracile Csili, questo il suo soprannome ungherese (derivato da csípős =piccante) che testimoniava il suo carattere vivace e da peperino, venne conclusa da un tremendo infortunio alla gamba sinistra. Ma non si perde d’animo e decide di allenare, fa gavetta in Uruguay, Argentina poi Alessandria dove lavora nello staff tecnico diretto da Augusto Rangone, un maestro già trainer della Nazionale agli inizi degli anni 20. Nel 1926 diventa allenatore dell’Inter e causa leggi di disumana genesi, tragico preludio della sua ignobile fine, è costretto a cambiare il cognome in Veisz.

Mentre gli altri allenatori vestivano in giacca e cravatta, Weisz fu il primo tecnico in Italia a presentarsi agli allenamenti in pantaloncini e maglietta; fu coautore di un manuale, Il giuoco del calcio, che fu bestseller dell’epoca. Il suo credo di gioco era quello della “scuola danubiana”, un metodo impostato su precisi ed efficaci passaggi rasoterra. Mister Weisz poi ha il non trascurabile merito di lanciare in prima squadra a soli 14 anni un ragazzo, Giuseppe Meazza, “un mucchietto d’ossa dai piedi prodigiosi” lo chiamava. Lo fa debuttare a Como, in una partita contro l’Us Milanese valida per la Coppa Volta. Quando negli spogliatoi comunicò che il 17enne Meazza sarebbe stato tra i titolari, la star nerazzurra Leopoldo Conti esclama: «Ah ora facciamo giocare anche i Balilla?» (alludendo alla neonata Opera Nazionale Balilla, che raccoglieva tutti i bambini tra gli 8 e i 14 anni, ndr). Conti però è costretto a ricredersi subito, la partita finisce 6-1 e il “Balilla” Meazza segna una tripletta. Vince uno scudetto nella stagione 1929-1930. A soli 34 anni è l’allenatore più giovane della storia della Serie A laurearsi Campione d’Italia. Il record oggi resiste ancora.

Nella stagione seguente l’Ambrosiana finisce quinta, e la dirigenza milanese decide di non rinnovare il contratto a Weisz, che va a Bari. Dal Tavoliere fa però presto ritorno a Milano, tornando di nuovo all’Ambrosiana con cui conquista due prestigiosi secondi posti dietro una Juventus straordinaria. Weisz lascia definitivamente i nerazzurri alla fine della stagione 1933-34 collezionando in totale 212 presenze sulla panchina (lo supereranno solo Herrera, Trapattoni e Mancini). Passa al Novara e nel 1935 approda a Bologna al posto del connazionale Lajos Kovács. Lì Weisz trova una squadra in crisi, ma riesce a produrre un miracolo e conquistare lo scudetto spezzando così il dominio della Juventus degli Agnelli. La “squadra che tremare il mondo fa”, così passò alla storia quel Bologna. Altro Scudetto l’anno dopo e a Parigi, il 6 giugno del 1937, vince anche il Trofeo dell’Esposizione (una specie di Coppa Campioni ante litteram), impartendo una severa lezione ai maestri inglesi del Chelsea per 4-1 con la stampa inglese che lo celebra come maestro dell’arte tattica, “un inno al calcio”.

Ma la storia decide di scrivere il suo destino e le leggi razziali promulgate dal regime mussoliniano lo costringono ad emigrare. Il 16 ottobre 1938 Weisz si sedette per l’ultima volta sulla panchina del Bologna battendo la Lazio 2-0, tra i fischi belluini del pubblico, che con mentalità ovina segue i dettami del regime. Due mesi dopo si trasferisce a Parigi insieme alla moglie Elena, anche lei ungherese di origini ebraiche e i figli Roberto e Clara, ma la Francia viene catapultata nella follia antisemita, persino il capitano della Nazionale francese del 1930, Alexandre Villaplane, si fa coinvolgere diventando addirittura informatore per la Gestapo.

Poi prova in Inghilterra ma c’è posto solo per gli inglesi e non c’è possibilità di ottenere il Visto. L'unica soluzione possibile è l'Olanda, il Dordrecht che lo designa come allenatore della squadra cittadina, una delle società più antiche dei Paesi Bassi e prima dell'arrivo di Weisz si trovava in lotta per non retrocedere. Arpad la salva dopo uno spareggio e si dedica all'insegnamento del suo sistema. La stagione successiva il Dordrecht conquista un incredibile quinto posto (miglior risultato di sempre nella storia della società olandese, ndr), battendo addirittura il grande Feyenoord, purtroppo però la spirale di violenza nazista giunge anche lì. Nel 1940 i tedeschi invadono i Paesi Bassi, Árpád guida il Dordrecht per un'altra stagione, nonostante in Olanda fu promulgato un decreto ad personam che lo costringeva a stare ad almeno 100 metri dal terreno di gioco. Weisz allena spesso di nascosto tramite indicazioni recapitate con piccoli fogli dai suoi collaboratori, e il Dordrecht arriva ancora quinto, ma il 29 settembre 1941 le leggi razziali hanno il sopravvento e il tecnico ungherese è costretto nuovamente ad abbandonare la panchina.

La famiglia Weisz viene aiutata dalla comunità di Dordrecht, per tirare avanti in quel periodo buio, purtroppo però non si riesce a raccogliere abbastanza soldi per permettere loro di abbandonare il Paese e il 2 agosto 1942 l'intera famiglia Weisz viene prelevata dalla Gestapo e avviata ai campi di sterminio. Dopo una breve permanenza a Westerbork, il 2 ottobre vengono messi in viaggio: direzione Auschwitz-Birkenau. Il 5 ottobre sua moglie Elena-Ilona Rechnitzer, di 34 anni, e i piccoli Roberto e Clara, rispettivamente di 12 e 8 anni, trovano la morte nelle camere a gas. Árpád riesce con quella soverchia e misteriosa forza che solo questo genere di perdite genera, a resistere ai lavori forzati fino al 31 gennaio 1944 quando cessa di vivere e il suo corpo viene gettato in una fossa comune.

Questa è la atroce e insensata fine dell’esistenza di uno degli uomini più importanti della storia del calcio. Parlando di lui svaniscono come gli effimeri bagliori del tramonto le questioni legate ai vari Sneijder, Balotelli, Ibrahimovic e balena in noi la speranza di ritrovare un senso a un mondo che ultimamente ne è spoglio. Le innovazioni di Weisz e le sue tattiche hanno cambiato il modo di intendere questo sport, facendo fare un progresso determinante all'evoluzione del gioco, l'epilogo della sua vita ci fa sprofondare negli abissi delle contraddizioni umane. A Bologna e Milano viene ricordato con una targa negli stadi delle due città e la partita di stasera è un omaggio, minimo ma importante, per ricordare Árpád Weisz e la sua famiglia, e di quanto l’uomo possa rendersi protagonista di macabri orrori, spesso fugacemente archiviati come remoti accadimenti storici, ma che sarebbe opportuno tenere sempre vividi in un angolo della nostra mente.

In memoria di Ilona Rechnitzer, Roberto, Clara e Árpád Weisz