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Fair Play Finanziario, la GdS fa chiarezza: “Ecco cos’è. Ha effetti distorsivi, l’Inter…”

La Rosea ha spiegato nel dettaglio le norme e le funzioni del Fair Play Finanziario

Marco Astori

Nonostante sia in vigore da diversi anni, ancora in molti nutrono seri dubbi su come operi l'Uefa in termini del celeberrimo Fair Play Finanziario. La Gazzetta dello Sport, nella sua edizione odierna, ha voluto spiegare esattamente cosa sia questo sistema e come funzioni, analizzando anche i suoi esiti.

1 Cos’è esattamente il fair play?

È un sistema di regole introdotto dall’Uefa nel 2010 per obbligare i club iscritti alle coppe europee al rispetto di alcuni parametri economico-finanziari: obiettivo calmierare i costi. Le società non sono tenute solo a saldare i debiti scaduti con gli altri club o i tesserati, ma anche a mantenere una gestione equilibrata dei conti. La regola-cardine è il cosiddetto break even: non proprio il pareggio di bilancio, ma un tetto massimo di perdite di 30 milioni di euro complessivi nel giro degli ultimi tre anni, avendo detratto le spese “virtuose” (impianti, vivai).

2 Insomma, si può spendere solo quanto si ricava?

Sì. I club devono essere autosufficienti e non dipendere dagli aiuti degli azionisti. Conta ciò che una squadra riesce a produrre in termini di fatturato: diritti tv, stadio, commerciale, plusvalenze calciatori. La proprietà deve, comunque, coprire l’eventuale deficit tollerato dall’Uefa, cioè i 30 milioni nel triennio.

3 Ma gli azionisti non possono aggirare il fair play pompando soldi attraverso sponsorizzazioni fittizie?

In teoria c’è un valore di mercato (fair value) da rispettare in caso di operazioni con parti correlate. Ma non tutto è filato liscio. Basti pensare a Psg e Manchester City, nuovamente sotto esame dell’Uefa dopo le sanzioni “morbide” del passato. C’è chi invoca ora l’esclusione dalle coppe per i due club, dopo le ultime rivelazioni di Football Leaks: secondo due società di revisione, il contratto Psg-Qatar Tourism Authority da 215 milioni l’anno poteva valere massimo 2,8 milioni. Fatto sta che grazie a quelle entrate il Psg ha raggiunto il break even.

4 Le italiane come sono messe?

Negli anni scorsi Inter e Roma hanno dovuto sottoscrivere il settlement agreement, che è una sorta di patteggiamento rispetto alle sanzioni unilaterali decise dall’Uefa: multe, rosa ridotta, limiti nell’acquisto di giocatori ai fini della lista Uefa, rientro delle perdite. Entrambe hanno fatto bene i compiti a casa: i giallorossi sono usciti dal settlement la scorsa estate, i nerazzurri lo saranno da luglio. Non è che adesso possano spendere e spandere: devono rispettare come tutte il tetto dei 30 milioni di rosso nel triennio. Particolare la situazione del Milan: l’Uefa l’aveva escluso dalle coppe perché non si fidava di Li Yonghong e aveva messo in dubbio la continuità aziendale. Sentenza ribaltata dal Tas, visto il passaggio di proprietà a Elliott, e nuovo set di sanzioni (12 milioni di multa, rosa limita, break even entro il 2021 pena l’esclusione dalle coppe) che il Milan ha contestato ancora annunciando ricorso al Tas.

5 Ma il fair play ha funzionato oppure no?

A livello di sistema sicuramente sì. Nel 2011 i club delle massime divisioni europee avevano accumulato perdite per 1,7 miliardi di euro; nel 2017, invece, hanno prodotto profitti per 600 milioni. Insomma, la gestione è nettamente migliorata. Ma, a parte le furbizie di alcuni, c’è stato un effetto distorsivo: sono stati avvantaggiati i club con la maggiore capacità di generare risorse, e di conseguenza le posizioni si sono cristallizzate. Va ricordato che nel 2015 l’Uefa ha introdotto il voluntary agreement: i club con nuove proprietà possono presentare un piano di rientro che, se accettato, consente di agire più liberamente per un certo periodo. Sono stati poi accelerati e rafforzati i controlli: ora l’Uefa può agire subito se un club registra uno sbilancio sul mercato di oltre 100 milioni.

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