Intervenuto ai microfoni de La Gazzetta dello Sport, Roberto Boninsegna, ex calciatore, ha voluto ricordare così Pelé, scomparso nella giornata di ieri: «Non era il capitano del Brasile, ma il leader sì. E tutti lo ascoltavano, dettava i tempi, era anche un regista. Nel 70? In più in quella finale abbiamo regalato agli avversari Zoff e Rivera. Infatti mi ricordò che Pelè disse di Rivera e Zoff: “Se non li fanno giocare, chissà che squadra hanno...”. Sa, Rivera era Pallone d’Oro, Zoff aveva vinto l’Europeo. Non dico che noi potessimo vincere quella partita, però ci credevamo, e in fondo a venti minuti dalla fine eravamo ancora sull’1-1».
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Boninsegna: “Pelé leader, che personalità. Una volta vide Burgnich e gli disse…”
Grazie a lei e al suol gol. Dopo tanti anni restano ancora i rimpianti?
—«Penso che avremmo potuto gestire meglio la situazione. Uno come Rivera, che entrò soltanto nei minuti finali, non meritava di rimanere in panchina. E neppure Zoff lo meritava. Albertosi è stato un ottimo portiere, ma in quel momento il migliore era Dino e secondo me sarebbe stato opportuno fare altre scelte. E poi gliel’ho detto, non ci sentivamo battuti anche se loro erano fortissimi e avevano il più grande di tutti dalla loro parte».
Altri errori oltre a quelli della formazione iniziale?
—«Non avremmo dovuto arrivare ai supplementari contro la Germania. Mi rendo conto che quella è diventata una partita mitica, ma avevamo speso tantissimo e anche questo ha avuto un peso importante sul risultato finale, al di là della qualità tecnica del Brasile».
Che cosa l’ha colpita di più di Pelé in quella partita?
—«Della sua tecnica sapevamo tutto, era un giocatore completo, destro, sinistro, colpo di testa. Un’elasticità di gambe pazzesca. Ricordo che in pratica sul primo gol è andato in cielo a colpire la palla. E poi, ripeto, la personalità. Ricordo un episodio prima della partita: eravamo schierati e Burgnich lo guardava, lo guardava e lui gli disse più o meno: “Cos’hai da guardarmi? Mi devi picchiare?”. Non era certo uno che si faceva intimidire dai difensori».
E parlava italiano?
—«Un po’. D’altra parte era venuto già tante volte a giocare in Italia. Non c’è bisogno di ricordare come lo marcò Trapattoni nella famosa amichevole a San Siro».
Un ragazzino invece era Pelé quando vinse il primo Mondiale...
—«Ma già allora era un giocatore completo e con gli anni non ha perso nessuna delle sue grandi qualità. E’ sempre stato un uomo squadra, e interpretava il gioco con intelligenza».
Secondo lei perché non è mai venuto a giocare in una squadra europea?
—«Non saprei. Credo che sia anche un fatto legato all’indole dei brasiliani, che sono molto legati alla loro terra e al loro calcio. Credo che anche questo abbia influito sulle sue scelte e sul fatto che praticamente ha giocato tutta la vita nel Santos».
Quanto gli sarà spiaciuto vedere il Brasile uscire dal Mondiale così male, nei suoi ultimi giorni di vita?
—«Certamente gli sarà dispiaciuto tantissimo, ma questo Brasile non aveva un uomo squadra e tutte le squadre che vincono ne hanno uno. Il Mondiale in Qatar lo ha vinto Messi. L’ultimo Brasile non aveva un uomo squadra e nessuno sarà mai più Pelé».
In queste settimane però si è parlato moltissimo di Messi e Maradona, con paragoni e sondaggi vari. Secondo lei chi è il più grande?
—«Io credo che non ci sia discussione. Pelé è stato unico, inarrivabile per tutti, anche per Diego. Hanno giocato in epoche diverse, è sempre difficile fare paragoni. Però Pelé era unico, non ho alcun dubbio in proposito. Era e resterà O Rei».
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