In molti hanno definito l’accordo fra Massimo Moratti e il gruppo guidato da Erick Thohir «fortemente innovativo». E c’è un motivo. Al di là delle questioni di cuore, di quello che è stato e della storia, se il presidente avesse voluto vendere la società, secondo una linea tradizionale, non avrebbe fatto fatica a trovare un acquirente, così come era già accaduto nella primavera 2006, prima che esplodesse Calciopoli. Se invece avesse voluto continuare da solo, avrebbe potuto farlo nonostante il club continui a costare molto/troppo, con perdite di bilancio intorno agli 80 milioni all’anno. E questo sebbene sia stato dimezzato il monte ingaggi. Moratti ha scelto una soluzione diversa: invece di un passo indietro, ha puntato su uno spostamento laterale. Un’idea nata 18 mesi fa, e che aveva portato all’accordo del 1° agosto 2012, che apriva le porte alla costruzione del nuovo stadio nerazzurro, un’intesa poi naufragata perché il gruppo cinese che lo aveva firmato non era nelle condizioni di farlo. Il problema non è mai stato la sopravvivenza, ma lo sviluppo, se è vero che il fatturato che era di 251 milioni nel 2010 è sceso a 170 milioni.
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Da qui la necessità di trovare una soluzione che riportasse in fretta l’Inter nel gruppo dei club europei che contano. Se Moratti avesse voluto un disimpegno unilaterale, non sarebbe mai andato a prendere Mazzarri e tutto il suo staff; non avrebbe fatto una campagna acquisti puntata sui giovani (Taider, Icardi e Belfodil),ma comunque economicamente dispendiosa; non continuerebbe a seguire la squadra da vicinissimo (da Pinzolo all’America in estate fino a Reggio Emilia in campionato). Moratti ha cercato in questi mesi una soluzione che garantisse un futuro di prestigio al club, accettando di arrivare a cedere la maggioranza azionaria, con l’unico scopo di ridurre (o azzerrare) i debiti e aumentare il fatturato, perché tagliare ancora i costi di gestione e gli stipendi potrebbe significare un ridimensionamento di società e squadra. Ha guardato all’estero per dare un futuro in linea con la tradizione interista, convinto che soltanto dai nuovi mercati potesse arrivare la spinta giusta per ripartire. Ha guardato a Oriente, dopo il grande successo dell’Inter nella tournée indonesiana di fine maggio 2012. Da qui la frase pronunciata da Moratti durante il Consiglio di amministrazione di lunedì: «Non sono conquistatori, ma vengono per dare più forza al club, per aiutarlo a crescere ancora».
In questi mesi le parti hanno lavorato (e stanno ancora lavorando), per trovare il giusto equilibrio fra la tradizione e la novità. La presenza di Moratti (e della famiglia) con una consistente quota azionaria (continuerà a fare il presidente se Thohir insisterà su questa soluzione, dopo quanto è già emerso nel vertice di Parigi del 18 settembre) non è per una questione di prestigio personale. L’Inter rappresenta un valore non soltanto economico, ma di passione, di tifo, di partecipazionepopolare; è un marchio che va valorizzato e sviluppato e Moratti può dare un contributo fondamentale, non soltanto per l’esperienza che ha maturato in 18 anni al vertice, ma per tutto quanto ha saputo fare durante la sua presidenza (16 trofei conquistati). La trattativa è stata lunga e complessa, anche perché nessuno aveva fretta di chiudere, visto che il vero obiettivo è diventato quello di fare tutto nel miglior modo possibile, risanando i conti, per preparare meglio il futuro. Ora mancano soltanto le firme; la holding indonesiana, con i tre soci (possibile un allargamento futuro) è pronta a lavorare, ma sarà il prossimo biennio a chiarire se si arriverà a un cambio totale di scenario oppure a una parentesi da chiudere in fretta.
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