Le ultime vicende in casa Inter fanno ripensare al passato e alle teste calde che hanno vestito la maglia nerazzurra. Come fosse un pegno da pagare, tutto questo accade nel tempio dello “zanettismo”, da Javier Zanetti, il meno non-banale di tutti: il simbolo della correttezza, uno così buono da aver segnato appena una ventina di gol in 858 partite, per non dare troppi dispiaceri agli avversari. Neanche Mancini ora riesce a raffreddare questa lastra di ghisa che fonde. Sarà per via del patrimonio genetico dell’Inter. Una volta qui c’era Benito Lorenzi, non per niente detto Veleno. Un calcio all’arbitro ai Mondiali, un limone piazzato sul dischetto del rigore in un derby per far sbagliare Cucchiaroni e avversari intimiditi in mischia con una strizzatina proprio lì. Gli interisti lo sanno. Una volta Materazzi la butta in rissa con Cirillo, un’altra Schelotto con Cigarini. Sempre Materazzi vince la Champions e mette una t-shirt con cui sfotte gli juventini in pieno trauma post-Calciopoli: «Rivolete anche questa?». Una delle prime zuffe certificate arriva in un Inter-Genoa del ‘25. Pugilato puro. Zamberletti prende un pugno e sta fuori un anno intero. Fino al match Cassano-Stramaccioni. È un’aria talmente frizzante che se un interista va via se la porta dietro. C’è un pantheon di bad boys a cui fare riferimento. Milano ti avvolge. L’olandese Van der Meyde, tra eccessi vari, ha raccontato nell’autobiografia di avere avuto uno zoo in casa: cavalli, tartarughe e zebre. Una sera scoprì che sua moglie aveva comprato pure un cammello. Antonio Angelillo, “angelo dalla faccia sporca”, si giocò la maglia per la relazione con una ballerina di night. Shalimov, giocatore più classico, perse la testa per una della Scala. Di Adriano si sa. Sette anni fa, nei bagni di un locale, Jimenez fece a pugni con Pinilla. Pare per una storia di donne. Succede, a forza di sentire “amala”.
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Il dna dell’Inter: pochi Zanetti, tanta ghisa che fonde. Da Lorenzi a Materazzi…
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