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Quaresma non muore mai: i suoi tatuaggi lo raccontano, non è solo “il trivela”…

L'ex nerazzurro ha spesso deluso le aspettative, ma in questi Europei sta dimostrando che le sue doti tecniche sono innegabili.

Alessandro De Felice

Sulle pagine de "La Repubblica" si racconta la storia di Ricardo Quaresma, volto noto del calcio italiano, per aver giocato in maglia nerazzurra nell'era Mourinho. Una vita (sportiva) fatta di alti e bassi, di cadute e rilanci inaspettati:

È TUTTO SCRITTO SUL VISO - Guardiamolo in faccia con attenzione, per capirlo meglio e quindi per confonderci le idee su di lui, sulla sua natura. Ha due grosse lacrime tatuate sullo zigomo destro, forse sono il segnale di un lutto recente e doloroso. Un altro tatuaggio è uno stiletto a forma di croce, sottilissimo, sullo zigomo sinistro. Altri due sono stampati dove l’orecchio si salda alla tempia, uno per lato, e sembrano un diamante. E alle orecchie, quando esce trionfante dallo spogliatoio di Marsiglia, dove ha appena portato in semifinale il Portogallo, Ricardo Quaresma esibisce due sensazionali orecchini di evidente provenienza tzigana: al centro un enorme rubino circondato da brillanti incastonati in una montatura d’oro zecchino, e come brillano quei gioielli nella notte del Vélodrome, molto più dei suoi occhi che sono sempre un po’ tristi. Per i portoghesi, che lo conoscono assai meglio di noi e ne salutano la centesima resurrezione, Ricardo Quaresma è “il Mustang”: il cavallo indomabile e indomato per eccellenza, o al limite lo chiamano “lo Zingaro”, perché ha padre gitano, e madre angolana, e quei suoi natali glieli hanno spesso ricordati, anche dentro il campo, e lui non ha mai gradito: «Ho subito il razzismo sulla mia pelle, in campo e fuori». Soprannomi che lo raccontano assai meglio del nostro “Trivela”, che fu più che altro uno sberleffo, chiamarlo così per limitare a quella sua giocata con l’esterno, a volte geniale ma più spesso banale, tutto il suo breve e deludente percorso nel calcio italiano.

NELLE MANI IL DESTINO DEL PAESE - Ma di delusioni ne ha inflitte parecchie, a se stesso e ai suoi estimatori: «Mi sono bruciato le ali presto», raccontava dopo aver fallito al Barcellona, che l’aveva pescato dallo Sporting Lisbona, dove faceva da chioccia a Cristiano Ronaldo, più piccolo di un anno e mezzo. Questione di attitudini, di indole: lui preferisce vivere e dissipare il suo talento, sono scelte anche queste. Ed ecco questa carriera a singhiozzo, a spizzichi e bocconi: due volte al Porto, due volte all’Inter, due volte al Besiktas, in mezzo due anni in Arabia, all’Al Ahly, e intanto le promesse illanguidiscono, la nazionale gli viene negata ai Mondiali 2010 e 2014, gli anni diventano più di 30, si va verso i titoli di coda, e invece all’Europeo 2016 riecco Quaresma. Gol alla Croazia negli ottavi e rigore decisivo alla Polonia nei quarti. Perché poi tutto ha una spiegazione, e in questo caso si chiama Fernando Santos, il ct, l’unico che ha avuto davvero tanto dal Mustang, nei suoi anni più felici al Porto tra il 2004 e il 2008: «È un allenatore che avrà sempre il mio rispetto. Con me si comporta da uomo e mi ha dato la fiducia di cui avevo bisogno». Bastone e carota, pare sia il metodo di Santos, e Quaresma ha ringraziato, facendosi trovare sempre nel posto giusto per lanciare in semifinale il Portogallo più brutto di sempre. «Sono andato a calciare il rigore e sapevo di avere nelle mie mani il destino di tutto il mio paese. Ma non ci ho mica pensato. Ho guardato il portiere e ho tirato dall’altra parte».

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