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Mancini: “Iniziai a giocare in parrocchia. Poi l’esordio con il Bologna. Mi ricordo…”

L'ex allenatore dell'Inter, Roberto Mancini, ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport

Riccardo Fusato

L'ex allenatore dell'Inter, Roberto Mancini, ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport. Ecco alcuni passaggi: "Come ho cominciato a giocare? Ho cominciato come tutti i bambini della mia generazione. Abitavo vicino all’oratorio e quindi ho iniziato per strada, dopo la scuola. Un tempo le scuole del calcio erano fatte di polvere e cemento, più che di spogliatoi riscaldati e prati innaffiati. Cosa facevano i miei genitori? Mia mamma all’inizio studiava e poi ha fatto l’infermiera e mio papà il falegname. Come era la mia stanza da bambino? Di calcio c’erano un paio di scarpe da calcio e un pallone di cuoio, quei palloni di cuoio che andavano tanti anni fa. Quelli di cuoio con le pezze legate l’una all’altra con i lacci. Poi piano piano sono andati modernizzandosi e ogni Natale io chiedevo a Babbo Natale un paio di scarpe nuove e un pallone da calcio. Quelle erano le cose, le uniche cose, che sinceramente mi interessavano. Chi tifavo? Juventus e Bettega era il mio idolo. I primi passi nel calcio?

Dopo la scuola, appena finito di mangiare, scendevo giù e c’erano tanti ragazzi. Allora non era come oggi, ora è difficile trovare ragazzini che vadano in parrocchia a giocare. Allora era pieno, era il senso dell’infanzia. Si iniziava a giocare a calcio dalle due e mezzo e si continuava fino alle otto di sera. Abitavamo tutti lì, la parrocchia era a due passi da casa, e così i genitori non erano preoccupati, perché sapevano dove eravamo. Ho iniziato a giocare con la squadra della parrocchia, l’Aurora Jesi, e di lì ho fatto tutta la trafila pulcini, giovanissimi. Però, sinceramente, si vedeva che avevo qualche qualità in più e quindi a volte mi portavano con la squadra dei più grandi. Magari non giocavo perché c’era il divario di età e, mi creda, due anni a quell’epoca si sentivano, c’era una significativa differenza fisica. Il Bologna? E’ una storia divertente. Potrei dirle che passai con i rossoblù perché mia mamma un giorno doveva andare a Bologna da un dentista. Mio padre, tramite un amico che abitava a Bologna, si organizzò in modo da andarci quando c’erano i provini. Una volta le squadre facevano molti più provini durante l’anno, per i giovani che venivano da fuori. Quindi si organizzò senza dire niente a mia mamma, perché mia mamma non voleva che io mi mettesi grilli calcistici per la testa. Non aveva tutti i torti: avevo tredici anni. Noi lasciammo mia mamma dal dentista e così io, mio papà e il suo amico andammo a Casteldebole, per fare il provino.  

 Mi ricordo benissimo perché c’erano tanti ragazzi, c’erano campi bellissimi. Mi sembravano un sogno. Per noi che venivamo dalla provincia era una sorpresa trovare i campi del centro sportivo così verdi, pieni d’erba, con palloni fantastici, quelli di cuoio, quelli veri. C’erano tanti ragazzi, fecero le squadre e l’allenatore mi mise in attacco. Però mio padre mi disse, prima di iniziare, “Guarda non stare davanti perché sennò non la becchi mai. Se vuoi farti vedere, torna indietro e gioca un po’ più a centro campo, così tocchi un po’ più di palloni”. Mai non ascoltare il proprio padre, specie se è, come papà, un fine intenditore di calcio. In effetti feci così, tornai indietro e mi sembrava di stare facendo bene. Ma, alla fine del primo tempo, mi tolsero subito dal campo perché avevano paura che ci fosse qualche altro osservatore e quindi potesse acquistarmi lui. Ma io non lo sapevo e mi spaventai, pensavo di non essere andato bene. Invece alla fine della partita ci chiamarono e ci dissero “A noi interessi”. A quell’epoca era diverso da oggi, perché, avendo io tredici anni, dovevano parlare con mio padre, doveva dare lui il benestare. Hanno detto che ci avrebbero fatto sapere e poco dopo mi chiamarono per andare a Bologna. Andai a vivere in un centro con altri ragazzi. Con me c’era Macina, che aveva la mia stessa età, era del ’64. Lui era fortissimo, era un amico e perciò noi due eravamo sempre insieme. Eravamo i più piccoli. Com’è stato il momento in cui ho lasciato la casa? Mia mamma si arrabbiò tantissimo con mio padre, lo minacciò addirittura: “Se gli succede qualcosa lo avrai sulla coscienza”. Perché una volta per andare da Jesi a Bologna era lunga, in treno ci volevano quattro ore, ora basta meno della metà. Mi ricordo che avevo l’emozione, la gioia, di andare in una squadra di calcio vera però allo stesso tempo avevo anche la paura di lasciare i genitori. Quindi il primo anno fu abbastanza difficile. Il mio esordio?  L’ allenatore era Burgnich, decise di portare qualche ragazzo in ritiro con la prima squadra, quelli che riteneva i più promettenti. Poi tornai alla squadra allievi. Pensi che non giocavo neanche nella Primavera. Dovevo disputare la prima partita del campionato allievi a Rimini. Mio padre stava andando lì, da Jesi. Ma Burgnich mi convocò con i titolari e mio padre cambiò il percorso con la macchina e arrivò fino a Bologna. Burgnich mi fece debuttare a quindici minuti dalla fine, nella prima partita di campionato. L'ingresso in campo? Sì, me lo ricordo, è stato molto emozionante. A sedici anni non me lo aspettavo proprio. Arrivare così di colpo a giocare in serie A è stata una delle emozioni più belle che abbia mai vissuto"

(Corriere dello Sport)