editoriale

E SE MOU FOSSE DIVENTATO UN’OSSESSIONE?

Daniele Vitiello

Semplicemente un personaggio di “rottura”. Josè Mourinho a prescindere dal valore tecnico, che può essere più o meno apprezzato, possiede un pregio non trascurabile: l’esercizio costante (e snervante) della pressione diretta e...

Semplicemente un personaggio di "rottura". Josè Mourinho a prescindere dal valore tecnico, che può essere più o meno apprezzato, possiede un pregio non trascurabile: l’esercizio costante (e snervante) della pressione diretta e indiretta che riesce a provocare nei confronti dei suoi avversari, o presunti tali. La cosiddetta punzecchiatura che negli intenti del tecnico nerazzurro rappresenta in toto una fine arma psicologica. In questi primi quindici mesi italiani, esclusa qualche uscita colorita che avrebbe anche potuto risparmiarsi (nessuno è perfetto), ha spesso risposto a vere e proprie bordate gratuite. Con il suo modo di intendere la professione, sempre molto vicino alla figura del manager all’inglese, l’uomo venuto da Setubal difende spasmodicamente la sua società, e conseguentemente, interpreta nell’immaginario collettivo il pensiero del tifoso della squadra per cui lavora, una sorta di “Braveheart metropolitano”. Spesso e volentieri alcuni personaggi cardine del calcio nostrano, ai quali è tutto consentito si lanciano in proclami, stilettate, che sfociano nell’immancabile moralismo (figlio illegittimo di questo tempo), al contrario del portoghese, definito provocatore per antonomasia, che invece si ritrova costantemente nell’occhio del ciclone, un “condannato” a prescindere. Lanciare il sasso e nascondere la mano, appare lo sport preferito dai suoi denigratori. I “mourinhani” o presunti tali (gli opportunisti di giornata) ne apprezzano il pragmatismo, la personalità, la sagacia con la quale sa attirare l’attenzione sulla sua persona lasciando la squadra più tranquilla di concentrarsi sul lavoro, la non banalizzazione del calcio parlato (ascoltare le sue conferenze stampa o interviste per conferma), e l’incommensurabile, quanto poco trascurabile, pregio di essere una persona diretta, lasciando agli altri l’arte stucchevole della retorica perbenista. Se poi riesce a provocare certe reazioni, per la serie “il fine giustifica i mezzi", appare evidente la necessità per gli avversari di assoldare un fine psicologo a libro paga, sempre utile all’occorrenza. In questi giorni di calma apparente, visto la sosta forzata dovuta agli impegni delle nazionali per le qualificazioni mondiali, il rumore dei nemici è ritornato immancabilmente a soffiare con una certa intensità, con l’intento, magari neanche troppo involontario, di provocare la solita bolla di sapone, anticamera del palese complesso di inferiorità. La chicca della settimana che si è appena conclusa comunque è arrivata direttamente da Coverciano e ha visto protagonista nientemeno che il capitano della Nazionale. Il Pallone d’Oro 2006, oltre ad omettere ripetutamente il discutibile (eufemismo all’ennesima potenza) biennio vissuto a Milano tra il 2002 e il 2004, dapprima si è addentrato in una problematica che da diversi anni limita la crescita del movimento calcistico italiano come lo scarso impiego di giovani (se per l’occasione cominciasse lui a mettersi da parte vista l’età e il rendimento), e poi, non ancora soddisfatto, ha riservato un consiglio (?) spassionato al “bambino” nerazzurro Santon, invitandolo seriamente a riflettere sulla possibilità, nel caso di prolungato scarso impiego, di lasciare l’Inter, pena l’esclusione dalle convocazioni per Sudafrica 2010. Non c’è che dire capitano, consigliere, procuratore e selezionatore, in attesa che anche il buon Abete si faccia da parte e gli ceda la sua poltrona, non è poco. La controreplica puntuale e ficcante del tecnico lusitano, come consuetudine, non si è fatta attendere. Capovolgendo la situazione la stessa sorte annunciata per il bambino nerazzurro potrebbe e dovrebbe, se questi fossero i parametri di valutazione, toccare anche ai vari Legrottaglie e Giovinco, riserve della Juventus e compagni del centrale napoletano, per non parlare poi del neo-bianconero Grosso, relegato in panchina in questo primo scorcio di stagione dal dentista di Lione (saranno più preparati di quelli di Milano?) che ha rimesso in piedi Aly Cissokho. Questa reazione naturalmente ha dato adito al solito vespaio di denigratori che non hanno perso occasione per catalogare l’episodio, come l’ennesima boutade scatenata dal "Mou". Ma d’altronde dovendo combattere nella paradossale normalità di questo pazzo mondo pallonaro, animato da classici e stucchevoli luoghi comuni, e dove sistematicamente si tralasciano oggettività e obiettività, nulla ormai può più stupire. Uno (special) contro tutti, la piacevole e inevitabile solitudine dei predestinati, accompagnata periodicamente dall’impalpabile quanto sollecitante rumore dei nemici. E pensare che il bello (o il peggio, dipende dai punti di vista) deve ancora arrivare…