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Eto’o: “L’Italia è il Paese meno razzista d’Europa. L’esperienza a Milano…”

Daniele Vitiello

Le considerazioni dell'ex attaccante nerazzurro nell'intervista concessa per pubblicizzare un evento di solidarietà a Milano con tanti campioni

Il 23 maggio scenderà nuovamente in campo a San Siro dopo tanto tempo. I riflettori non saranno puntati soltanto su di lui, considerando i tantissimi campioni che parteciperanno ad un match di beneficenza contro il razzismo, ma Samuel Eto'o è il vero promotore della serata. Ne ha parlato ai microfoni di Repubblica: "Non voglio parlare di calcio, ma di quello che il calcio può fare per favorire integrazione e inclusione. È un mezzo straordinario perché vola sugli ostacoli e parla tutte le lingue. Ho giocato in molti Paesi e da due, Spagna e Italia, sono stato accolto benissimo. Bisogna essere capaci di guardare oltre il pallone, perché tutti noi giocatori abbiamo la possibilità di godere del bello e di apprendere l’arte e la cultura di altri Paesi. Il messaggio è che possiamo vivere insieme, dentro e fuori il campo, rispettandoci, anche se ci sono società che si credono più importanti e che tendono subito ad affermare gerarchie».

Accidenti, sembra un predicatore: Eto’o calling.

«Ho vissuto e fatto esperienze e credo nella multiculturalità. Lo sport è bello perché ha un ruolo per tutti, e i veri SuperEroi sono quelli che danno esempi di inclusione e di integrazione. Non è che a me il verso della scimmia negli stadi non l’hanno fatto, e ho avuto problemi anche in strada. Però vi dico che l’Italia è il Paese meno razzista d’Europa e forse anche il meno ipocrita. La mia famiglia è rimasta a vivere a Milano, mia moglie ci si trova bene, quelle nello stadio sono minoranze, sporcano l’immagine del Paese, non minimizzo, vanno perseguite, anzi mi chiedo come mai non si sia riusciti a debellare certe brutte manifestazioni. In Inghilterra ce l’hanno fatta. E non parlo solo di punizioni. Bisogna iniziare dai bambini che sono vittime innocenti, e non mollare mai la presa, perché poi gli adolescenti tornano a casa e sentono i grandi fare certi discorsi».

Favorevole all’ingresso di una rappresentanza dei tifosi nei club come in Gran Bretagna?

«Molto. Giochiamo per i tifosi. È giusto che siano compartecipi di alcune decisioni. È un modo per dare loro responsabilità e per avviare un dialogo. Io credo che il razzismo vada dibattuto, non ignorato. Meglio dire c’è, è orribile, ma parliamone, senza fare finta di niente. Su che cosa si basa? Su uno sfruttamento anche economico. Prendiamone coscienza».

Come ha convinto Messi a partecipare?

«Ero al Barcellona quando è arrivato in squadra, lo vedevo allenarsi, gli ho dato consigli. Che vuoi fare, gli dissi: essere un giocatore anonimo o impegnarti a diventare qualcuno?

Per me è il migliore. Ogni tanto ci sentiamo, così l’ho chiamato. Due altri tipi fenomenali per me sono Bolt e Ronaldinho. Sempre sorridenti, performer per la gioia del pubblico. Hanno cambiato l’immagine dei campioni musoni, concentrati solo su sé stessi».

Appena nominato presidente federale si è messo contro il ministro dello Sport.

«Sono stato eletto con un programma e l’ho mantenuto scegliendo come ct Rigobert Song, ex giocatore della nazionale, al posto del portoghese Toni Conceiçao. E ci siamo qualificati per i Mondiali. Voglio bene al mio Paese, ne sono appassionato perché come ho sempre detto: vivo in Europa, ma dormo in Africa».

Lo sport ha subito solidarizzato con l’Ucraina.

«Bene. Le guerre sono brutte. In Africa ce ne sono tutti i giorni e si conoscono i nomi di chi le fa, ma sembra non importare a nessuno. Però chi scappa dai conflitti africani non è ben accolto o forse non è abbastanza vittima? Eppure l’Europa prende il nostro gas, i nostri diamanti, i nostri prodotti. Lo sport ha una voce forte, sa farsi ascoltare, andare oltre i pregiudizi. Deve sempre accogliere, non allontanare. A Wimbledon sarebbe stato bello far giocare in doppio ucraini e russi insieme per poter dimostrare che la convivenza su questa terra è possibile. Soprattutto se giochiamo insieme, senza costruire false superiorità. Dobbiamo provarci».