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Quando il clima si infuoca, Mourinho sfodera armi che sa usare alla perfezione, trasformando ogni dichiarazione in uno scontro, ogni partita in una corrida e ogni sconfitta in una congiura. In due anni e mezzo ha collezionato sette espulsioni e una decina di giornate di squalifica, tutte per qualche parola, per qualche protesta, per qualche offesa a un arbitro: i parafulmine del suo rendimento zoppicante, visto che tutti suoi predecessori — da Fonseca a Di Francesco, da Ranieri a Garcia, da Andreazzoli a Montella — avevano una media punti più alta. Solo che questo copione inizia a stancare anche chi a ogni replica chiedeva il bis. Prima o poi, anche tra i fedelissimi, sbatti contro qualcuno che te lo dice: adesso basta.
Dopo il ritorno a Roma della squadra da Budapest, la finale delle polemiche — indovinate di chi — contro l’arbitro Taylor, i Friedkin si scusarono personalmente con alcune istituzioni sportive. Quelle scene sono lontanissime dalla loro idea di sportività. E forse è per questo che Mourinho non ha mai avuto dalla società l’appoggio che avrebbe voluto nella lotta agli arbitri: semplicemente perché la proprietà non condivide la sua lotta. Per questo del rinnovo non si parla. Per questo il Milan, domenica, è una frontiera. Basta pochissimo, a questo punto, per veder comparire la scritta “game over”.
Ha potuto contare su ogni alibi, fino a oggi, Mou: gli infortuni seriali di Dybala, un mercato che non ha sanato le voragini nell’organico, l’inerzia di Pellegrini, l’assenteismo di Smalling. Ma l’agghiacciante apatia della squadra dopo il gol della Lazio ha lasciato un segno. E il tentativo di scaricare la responsabilità su «Irrati che ha deciso chi andava in semifinale dalla cabina del Var» aveva il suono delle unghie sul vetro: eh, no, José. Perché non sempre basta il passato per garantirsi un futuro", si legge.
(Fonte: Repubblica)
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