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È stato un peso essere il figlio di una leggenda?
—«Sì. I tifosi dell’Inter all’inizio dicevano “quello non sarà mai come suo padre, se si chiamasse Brambilla e non Mazzola non sarebbe qui”. Io ne soffrivo. Tornavo a casa e non mangiavo, andavo direttamente a letto. Quando poi sono diventato davvero un giocatore, ogni volta che tornavo a Torino mi sentivo come intronato: guardavo la basilica sulla collina e mi tremavano le gambe. Mi rivedevo bambino. Quando lo storico magazziniere Zoso mi portò nello spogliatoio del Filadelfia per mostrarmi l’armadietto di papà, mi misi a piangere. Per me, Valentino Mazzola era il cimitero, i fiori e le lacrime di mia mamma».
È vero che il mitico Puskas le parlò di lui dopo la finale di Coppa dei Campioni del 1964?
—«Battemmo il Real Madrid a Vienna e io segnai due gol. Dopo la partita, aspettai Puskas davanti alla porta del loro stanzone: uscì, mi venne incontro e mi disse “bravo, io ho giocato con tuo padre e posso dire che forse sei degno di lui, forse”. Non capii più niente dalla gioia».
Erano in tanti a raccontarle di Valentino?
—«Gianni Brera mi disse che era stato il più grande giocatore italiano della storia. Anche per Boniperti era così. La Juve cercò due o tre volte di comprarmi, ma io quella maglia non avrei mai potuto indossarla. Un altro che mi parlava di papà era l’artigiano calzolaio di via Olmetto, a Milano, che gli cuciva gli scarpini da gioco. Ci andai anch’io: ero solo un ragazzo, e dopo si trattava di pagarle. Risparmiavo 25 lire a settimana sulle corse dei tram che l’Inter mi rimborsava, andavo a piedi e così mi compravo le scarpe. Oppure, me ne facevo passare un paio da qualche giocatore più anziano, solo che mi andavano sempre larghe. Quando finalmente diventai titolare, quell’artigiano le scarpe me le fece gratis».
Mazzola, lei come sta oggi?
—«Me la cavo, ogni tanto qualche ricordo sparisce ma non i più lontani: quelli, li tengo stretti. Diciamo che sono abbastanza in forma e posso giocare gli ultimi dieci minuti. Ma non al posto di Rivera, eh: io e lui quei dieci minuti li giochiamo insieme! Entro all’ottantesimo e faccio gol».
(Repubblica)
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