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Zanetti: “Lautaro è entrato nella cultura dell’Inter. Quando lo prendemmo capì subito che…”

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Le parole del vicepresidente dell'Inter: "Ha saputo entrare nella cultura del calcio italiano e in quella dell’Inter. Se tu vedi, ogni anno Lautaro fa uno step in più"
Marco Astori Redattore 

Javier Zanetti, vicepresidente dell'Inter, ha concesso una lunga intervista ai microfoni di Beppe Severgnini e il Corriere della Sera per presentare il suo terzo libro. Pupi è partito dal 10 giugno 1978: «Era sabato 10 giugno e allo stadio Monumental, nella casa del River Plate, si giocava l’ultima partita del gruppo 1 del Mondiale: Argentina-Italia. Da casa mia, lo stadio distava mezz’ora di macchina. Per strada non c’era nessuno. Neanche le sinistre e famigerate Ford Falcon, perché durante le partite della Selección perfino la terribile guerra sucia, intrapresa dalla Giunta militare che due anni prima aveva conquistato il potere, si fermava. Avevo cinque anni, me lo hanno raccontato. Ricordo i festeggiamenti, però. Meraviglioso vincere la Coppa del Mondo a casa propria. Poi uno cresce e inizia a capire quello che c’era dietro... Penso alla pressione sui calciatori, cosa volesse dire giocare in quelle condizioni lì».

Miguel Angel Santoro, ex portiere, dirigente dell’Independiente, ti scartò dalle giovanili.Disse a tuo padre: «Troppo magro e gracile. Guardi che braccine, sembrano due grissini.Non diventerà mai un calciatore professionista, glielo garantisco». L’hai rivisto, questo genio del calcio?


(ride).

«Sì, l’ho rivisto. Secondo me, a Santoro quella cosa gliel’ha detta l’allenatore di turno. Il calcio di queste storie è pieno».

Sei andato a fare il muratore con tuo padre.

«Me la cavavo. Lo spirito di adattamento non mi è mai mancato. Sono argentino».

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A Buenos Aires gli italiani venivano chiamati tanos, perché quando sbarcavano al porto di La Boca e gli chiedevano da dove arrivassero, rispondevano: «Da lontano». Tuo bisnonno veniva da Sacile, provincia di Pordenone.

«Il bisnonno Paolo in Italia non riuscìa tornare, neanche mio nonno. Io e mio padre si.

Siamo venuti a chiudere il cerchio, a noi la vita ha dato questa opportunità. Era bellissimo trovarsi in quel paesino accogliente, dove in tanti portano il nostro cognome. Tutti gran lavoratori, gli Zanetti».

Ai campioni argentini, nel libro, hai dedicato alcuni ritratti. I cinque più forti che hanno giocato in Italia? Escluso l’autore di questo libro e Maradona, che è fuori quota.

«Questa è difficile... Vediamo. Angelillo. Quello della Juve, Sivori. Batistuta. Milito. E Cambiasso, per la sua intelligenza».

Scrivi: «Lautaro, rivedevo qualcosa di me nel suo sguardo».

«Lauti, ricordo quando siamo andati a prenderlo. Ha capito subito la grande opportunità che aveva. Ha saputo entrare nella cultura del calcio italiano e in quella dell’Inter. Se tu vedi, ogni anno Lautaro fa uno step in più...».

Si parla degli olandesi, dei brasiliani, degli argentini. Esiste un comun denominatore nazionale per i calciatori?

«Noi argentini siamo resilienti. La nostra storia è una storia dura, cresciamo dentro la difficoltà. Ecco perché non ci spaventa il momento difficile che può capitare in un campionato, in una partita, in una finale».

Leggo, a un certo punto: «I paragoni tra Messi e Maradona si sprecavano. Forse anche troppo, al solito».

«Confronto impossibile. Rappresentano epoche diverse, sono persone diverse. Diego è la poesia del calcio. Messi, la scienza».

Pupi Zanetti, Cholo Simeone, Cuchu Cambiasso, Principe Milito, Tucu Correa, la Joya Dybala, Di Maria el Fideo, che vuol dire «lo spaghetto». Perché questa passione argentina per i soprannomi?

«I telecronisti. Sono loro che ci battezzano, subito. E il nome rimane».

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Il 19 novembre, fra pochi giorni, in Argentina ci sarà il ballottaggio presidenziale tra il peronista Sergio Massa con l’anarco-liberista Javier Milei. Lo scrittore Martín Caparrós, di Buenos Aires, lo ha definito «l’espressione più estrema di un fenomeno diffuso nel mondo: l’insoddisfazione cerca risposte a destra».

«L’Argentina ha tanto potenziale, non siamo mai riusciti a sfruttarlo. Economia, istruzione, sanità: un disastro, impossibile vivere, se solo devi pagare un affitto. I ragazzi non vedono futuro, scappano appena possono. Vinca uno o l’altro, io voglio una persona che si prenda questa responsabilità. Perché gli argentini non possono essere felici?».

José Mourinho il tecnico del triplete: un allenatore peronista?

«Mou è così, è la sua forza. Sa rispondere a ogni situazione. Lui pensa, pensa sempre. Si prepara prima».

La scelta di Mancini di mollare tutto e tutti e andarsene in Arabia Saudita? «Conosco Mancio. Mi dispiace per questa situazione. Si poteva gestire meglio».

Cose ti piace e non ti piace di Milano?

«Mi piace l’energia, mi piace meno la fretta. Se a Milano ti dico “Beppe, andiamo a prenderci un caffè?” è una roba di tre minuti, poi tu vai a lavorare, io vado a lavorare. A Buenos Aires? Mezz’ora, come minimo».

Citazione finale, dal libro: «Italiani e argentini si somigliano. Se non ci complichiamo la vita da soli, se non soffriamo e non ci mettiamo subito in una posizione di svantaggio, sembra quasi che non ci si diverta».

«È così. Se tutto è tranquillo e sereno, a noi italiani e argentini non piace. Deve succedere qualcosa, per provocare una reazione e tirare fuori quello che siamo».

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