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Lukaku: “EL, non ho parlato per 4 giorni. Conte padre e mentore. Vidal top e Barella sarà…”

La lunga intervista rilasciata dall'attaccante belga alla Gazzetta dello Sport

Gianni Pampinella

È entrato nello spogliatoio in punta di piedi e nel giro di poco tempo ne è diventato uno dei leader indiscussi. Un anno dopo il suo arrivo, Romelu Lukakuè uno dei beniamini dei tifosi nerazzurri grazie ai suoi gol e non solo perché Big Rom è uno che si fa amare anche per i suoi comportamenti fuori dal campo. In una lunga intervista rilasciata a Walter Veltroni per la Gazzetta dello Sport, il belga racconta la sua infanzia difficile, l'arrivo in Italia, il suo rapporto con Conte e non solo.

Mi racconta il primo pallone della sua vita?

«Avevo un anno e mezzo. Eravamo a casa a Liegi, in Belgio, e da quel giorno non mi sono mai più separato dal pallone. Così è iniziato il mio amore per il calcio. Papà mi portava, ogni volta che poteva, ai suoi allenamenti. Lui è partito dallo Zaire per giocare a calcio in Belgio, è arrivato nel 1990 e ha militato dieci anni nella loro Serie A».

La sua famiglia ha sofferto.

«Proprio no. Mio papà non ha avuto fortuna con i soldi. Quando ha smesso la carriera non ha comprato una casa, non ha risparmiato. Quando lui ha finito di giocare io ho capito velocemente che noi avremmo avuto serie difficoltà economiche. Ho deciso subito di fare il calciatore. Volevo migliorare la situazione della mia famiglia».

Il momento più duro?

«Sì. Non posso dimenticarlo. Un giorno, prima di andare a scuola, vidi mia madre fare un gesto che non ho più dimenticato. Prendeva il latte rimasto del giorno prima, aggiungeva l’acqua e poi lo riscaldava per darlo a noi bambini. Era la colazione che dovevo fare con mio fratello. Ero piccolo, andavo in prima elementare. Aver sofferto, avere visto i sacrifici dei miei genitori mi ha dato tanta forza, sempre. Niente è arrivato facilmente per me. Non ho avuto regali, ho conquistato ogni cosa».

Cosa ha regalato ai suoi genitori quando ha potuto farlo?

«Una casa. Avevo sedici anni. I primi anni della mia carriera ho lasciato tutti i soldi a mio padre e mia madre, perché loro avevano bisogno. A me bastava giocare a calcio. Era la cosa più bella, non pensavo ad altro. Mi bastava una Playstation 3 o una X-Box per giocare con mio fratello. Niente di più. Ma la prima cosa che ho fatto, quando ho firmato il contratto, è stato comprare una casa ai miei. Mi avevano tirato su, mi avevano fatto andare a scuola, avevano sofferto e faticato per me. Era giusto che li risarcissi».

Cosa le manca dell’Africa?

«Mi dispiace molto che i miei nonni, che erano rimasti in Zaire, non possano vivere con me questo momento della mia vita. Mi fa male. Avevo un ottimo rapporto con il papà di mia mamma: è lui che mi ha spinto a fare il calciatore. Lui un giorno mi ha detto con solennità che tutta la responsabilità della famiglia era sulle mie spalle. E dopo una settimana è morto di cancro alla prostata. Mi manca molto».

Quante lingue conosce?

«Adesso sette. L’unica che ho veramente studiato è lo spagnolo, a scuola. Negli ultimi due anni era obbligatorio fare tre ore di spagnolo a settimana. Allora pensavo di andare nella Liga e perciò mi hanno dato un professore di spagnolo che veniva a casa per tre ore a settimana. Con lui ho imparato lo spagnolo e quello mi ha aperto tutte le porte e reso facile conoscere anche la vostra lingua».

Ricordo un’intervista a Sky in cui lei parlava italiano ben prima di venire in Italia...

«Sì, perché giocare in Serie A era uno dei miei sogni. Mio fratello era nella Lazio e le sue partite le vedevo commentate in italiano. Quando sono arrivato all’Inter capivo tutto, però non parlavo bene. Allora ho chiesto al mister se per due settimane poteva parlare con me solo in italiano. Quando mi sono sentito sicuro ho iniziato. E non ho più smesso».

Cosa le piace di più del calcio?

«Allenarmi, giocare le partite, tutto. E’ quello che volevo fare da piccolo. Il mio sogno è diventato realtà ed ora è il mio lavoro, la mia famiglia dipende da me . Non più il contrario. Far diventare il proprio sogno il proprio lavoro e divertirsi a farlo è davvero il massimo».

Come si trova in Italia?

«Molto bene. E’ il miglior Paese in cui sia mai stato. Amo stare in Italia. Mi piacciono l’amore della gente, il rispetto. Io sono una persona che rispetta gli altri e quando incontro la gente mi piace parlare e stare con loro. Gli italiani mi hanno accolto molto bene e io sono grato a tutti. Anche il calcio italiano è un calcio che va bene per me, mi ha fatto migliorare in tutto. Ho voglia di crescere e voglio fare ancora di più per la squadra, per il mister, per la società e soprattutto per i tifosi».

Lo scudetto è possibile?

«Per me la cosa più importante è parlare in campo, dobbiamo giocare e far bene nei 90’. Fuori dal campo non sono una persona che parla tanto. Preferisco esprimermi quando gioco. Ma voglio dare tutto quanto posso per far bene, quest’anno. Per far bene all’Inter».

Che allenatore è Conte?

«Per me è un mentore, un padre, una persona che mi capisce veramente bene. E anche io lo capisco e gli sono grato della stima che ha sempre avuto per me. La prima volta che lui mi ha chiamato, sei anni fa, già voleva che fossi acquistato. Per me giocare per lui è veramente la realizzazione di un sogno. Vedi le sue squadre e capisci che puoi, come singolo e come collettivo, imparare tanto e migliorare tanto. Sento di essere cresciuto molto nella stagione scorsa, merito del mister e del suo staff. Ma dobbiamo pensare sia solo l’inizio. Dobbiamo migliorare ancora e Conte è l’allenatore giusto per farlo».

Quanto può contare l’arrivo di un giocatore come Vidal?

«Per noi l’arrivo di Vidal è molto importante: è un giocatore di grande qualità. L’anno scorso abbiamo fatto bene ma se dobbiamo migliorare è in qualità ed esperienza. Due doti che Vidal ha. D’altra parte non si vince tanto e con squadre diverse se non si è giocatori di livello».

Che cosa serve nel calcio per essere un leader?

«Avere la mentalità positiva, cercare sempre di essere migliore del giorno prima ed aiutare i propri compagni in ogni momento. Ed essere disponibili anche a soffrire, a prendersi responsabilità, a condividere vittorie e sconfitte. Non solo con i compagni di squadra ma con tutto il collettivo. Una squadra vince anche con i magazzinieri o con lo staff medico. Stiamo insieme e insieme vinciamo o perdiamo. Per me giocare nell’Inter è un sogno che si realizza. Non avrei mai potuto immaginare che si avverasse. Io non prendo questa opportunità alla leggera, sono venuto qua per fare bene, per lasciare un segno. Ogni giorno, quando mi sveglio, voglio fare di tutto per migliorare. Posso giocare bene o male ma ogni volta che scendo in campo voglio dare tutto. Anche in allenamento sono così. Il mister e i compagni mi prendono in giro perché io mi arrabbio anche quando perdo le partitelle tra noi. Questa è la mia maniera di giocare al calcio, di pensare il calcio. Quando non sarà più così, smetterò».

Quanto ha pesato la sconfitta nella finale di Europa League?

«E’ stato un momento molto difficile per me. Non ho parlato nei quattro giorni successivi alla partita. Però un giorno mi sono svegliato e mi sono dato una ragione. Nella stagione passata non abbiamo vinto il campionato per un punto, abbiamo perso la semifinale della Coppa Italia perché non abbiamo fatto un gol e poi la finale 3 a 2, in quel modo. Sono cose che succedono. Solo soffrendo si migliora. La vittoria è fatica, è carattere, è analisi dei propri limiti. Ma è combattività, è voglia di riscatto e di successo. Si può perdere, ma solo per imparare a vincere».

Cosa si può fare di più contro il razzismo?

«Esiste ancora, in tanti campionati, in tutta Europa. Ed è assurdo. Il football è multiculturale, multietnico. In ogni squadra c’è un giocatore di un’altra nazionalità, di un altro colore, di un’altra religione. Dobbiamo rispettare tutto questo. E’ lo sport, è la vita. A me in Italia è successo una volta di avere problemi. Ho reagito, ma poi non è più accaduto. Amo il vostro Paese e il vostro calcio. E i tifosi di ogni squadra mi rispettano, come giocatore e come uomo. Non voglio confondere tre o 300 che fischiano con migliaia di spettatori e di cittadini civili. Ho fiducia che l’assurdità del razzismo sia consegnata al passato».

Un problema del mondo che le piacerebbe fosse risolto.

«Se avessi le chiavi del mondo lavorerei per debellare ogni malattia e rimuovere le povertà. Uguali diritti per tutti».

Com’è il calcio senza pubblico?

«Brutto. Si sente tutto. Anche quello che dico io, che forse non dovrebbe sentirsi. Speriamo che i tifosi possano rientrare presto negli stadi e rimanere in sicurezza. Stiamo facendo le cose bene, in Italia, e speriamo che gli spettatori possano rientrare presto sugli spalti. Perché il calcio senza tifosi non è vero calcio».

Che differenza c’è tra il calcio inglese e quello italiano?

«Il calcio italiano è molto più tattico. Per giocare a certi livelli devi essere intelligente nel movimento, nella gestione della palla, tecnicamente devi essere più forte perché non c’è lo spazio e neanche il tempo per girarsi. Un giocatore veramente pericoloso – che so, Ibrahimovic, Dybala o Lautaro - quando prendono la palla hanno sempre tre giocatori che li marcano. Bisogna lavorare tanto. Per me la partita non si prepara lo stesso giorno in cui si svolge. Io, se giochiamo il sabato, inizio a pensare alla partita il mercoledì. Studio come un difensore gioca, come si dispone in una determinata posizione o come reagisce in certe situazioni. Dopo l’allenamento resto quindici, venti minuti con lo staff dell’allenatore. Facciamo qualche simulazione dei movimenti della difesa avversaria, così sono preparato ad ogni situazione in campo».

Chi è il difensore migliore che ha incontrato?

«Sono tutti forti, in Italia. Koulibaly è tosto, mi diverto quando gioco con lui: mi piace il contrasto, la forza dell’avversario. E’ così con Klavan che gioca a Cagliari, o Kumbulla che era al Verona o con Bonucci o Romagnoli. Tutti giocatori che quando giocano con me ci mettono un impegno particolare. Ma questo vale anche per me, perché voglio vincere, e più il difensore è forte e più mi motiva. Non si meravigli, ma un buon difensore rende l’attaccante migliore, perché lo obbliga a dare tutto e a cercare nuove soluzioni».

Il centrocampista nella storia della sua carriera che le ha fatto i lanci più belli?

«De Bruyne, senza dubbio. Lo conosco da quattordici anni e giocavo contro di lui, conosco le sue qualità. E’ di un livello inimmaginabile».

Il Belgio non riesce a vincere quanto meriterebbe.

«Abbiamo sbagliato l’Europeo 2016 in Francia. Al Mondiale invece la Francia ha fatto la partita tattica che doveva fare. Forse noi abbiamo peccato di inesperienza: nella semifinale abbiamo avuto tantissimo possesso, però non tante occasioni. Loro una sola, hanno segnato, sono andati in finale e hanno vinto. Abbiamo imparato, come sempre, da una sconfitta. Ora sappiamo che bisogna fare gol, uno o tanti, anche se non si gioca così bene. Con la Danimarca dopo quindici minuti noi abbiamo segnato un gol e alla fine un altro e così abbiamo vinto. Adesso capiamo che le partite si vincono con determinazione, non devi sempre avere tantissimo possesso di palla per vincere una partita. In fondo è semplice: bisogna segnare il più possibile e prendere meno gol possibili. Il resto vale per le statistiche».

Il giorno più bello e il più brutto della sua vita.

«Il più bello è stato quando mio figlio è nato. Il calcio è importante, ma la vita lo è di più. Il più brutto la morte del papà di mia mamma: lui ci è sempre stato vicino. Abbiamo avuto tante difficoltà in casa, vivevamo con cinquecento euro al mese. Mia mamma è diabetica. Lui è stato importante per me, come una guida. Quando è morto è stato il giorno peggiore. Mi manca».

Se dovesse scegliere una maglietta di una partita da portarsi su un’isola deserta?

«Il primo gol a sedici anni. In quel momento mi sono sentito realizzato, la vita della mia famiglia è cambiata e io ho capito che avrei potuto farcela. Quando sei così giovane entrare in una partita per cinque minuti è possibile. Ma fare un gol, a sedici anni, può cambiare tutto. Così è stato per me».

Qual è il suo gol più bello?

«Giocavo con l’Everton e segnai al Chelsea nei quarti di finale di Fa Cup nel 2016. E’ un gol di potenza, ma anche di tecnica. Le mie due caratteristiche. C’era tutto, in quel gol. L’anno dopo ne ho segnato uno molto bello contro il City di Guardiola, Un affondo sulla sinistra e un tiro in diagonale. Però il gol contro il Chelsea è quello a cui sono più legato».

C’è un giocatore italiano giovane che le piace?

«Barella sarà un giocatore molto importante, per la Nazionale e per l’Inter. E’ un ragazzo cresciuto molto negli ultimi sei mesi ed è impressionante con la palla e anche a livello fisico, di mentalità. Anche Esposito può essere un calciatore importante, ma deve giocare di più. Con la mentalità che ha e con più minuti in campo potrà dare molto. Stimo anche Kean. E Chiesa».

Se dovesse regalare un pallone ad un bambino e dirgli “Il calcio è questo” cosa gli direbbe? Che cos’è il calcio?

«Umiltà, voglia di lavoro, testa e fame. Avere fame per vincere, lavorare tanto per appagarla, per mangiare il campo. Ogni istante di ogni partita».

(Gazzetta dello Sport)