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Thiago Motta: “Eto’o la chiave del Triplete. Via dall’Inter per Branca, con Mou la svolta”

Thiago Motta: “Eto’o la chiave del Triplete. Via dall’Inter per Branca, con Mou la svolta”

L'ex centrocampista nerazzurro chiuderà la sua carriera al termine della stagione

Fabio Alampi

Al termine della stagione appenderà gli scarpini al chiodo dopo una lunga e vincente carriera tra Brasile, Spagna, Italia e Francia: Thiago Motta, uno dei protagonisti dei successi dell'Inter targata Mourinho, ha concesso una lunga intervista a La Gazzetta dello Sport.

Se le diciamo Saude?

Il mio quartiere di San Paolo. Si giocava per strada e presto il calcio diventò tutto per me. A 4 anni e mezzo ero alla Juventus, quella con maglia granata. Poi c'era il calcio a 5, dove ero un fenomeno nel torneo delle scuole. Mi prese il liceo Drumond de Andrade con una borsa di studio, ma dovevo attraversare la città in metro, con mia sorella Michelle. A 14 anni uscivo alle 6 del mattino tornavo a mezzanotte. Mia madre mi lasciava un piatto in tavola, ma crollavo dal sonno. E ricominciavo il giorno dopo con allenamenti e scuola.

Poi arrivò il Barcellona.

Ero in Uruguay al Sudamericano con l'U17 brasiliana, l'unico senza contratto pro. La Juventus voleva mandarmi 3 mesi in prova al Maiorca. Il Barcellona arrivò con la maglia del centenario autografata da Rivaldo, il mio idolo. Fu facile scegliere.

A 16 anni da solo in Spagna alla Masia.

Non fu semplice. Ricordo le telefonate in Brasile da una cabina, mentre Victor Valdes telefonava con il suo Motorola dalla nostra stanza e mi teneva sveglio. In allenamento era una guerra, prendevo palla e tutti mi urlavano di passarla. Un giorno feci una scenata, fermai il gioco e dissi a tutti di calmarsi. E poi mi entravano duro. Puyol, che giocava a centrocampo, mi disse di fare lo stesso. Da allora fui rispettato.

Si allenava già con la prima squadra?

Da quasi subito. Ricordo Rexach: si metteva di spalle e dal fruscio del pallone capiva se facevamo le cose giuste. E Rivaldo mi consigliò le Mizuno, quelle nere. Gli scarpini colorati mi distraggono perché poi non vedo bene il pallone.

Van Gaal?

Durissimo. Se non avevi la maglia nei pantaloncini non ti allenava. Si inventò Puyol in difesa quando stavano per cederlo al Malaga. Quell'anno salì anche Iniesta. Lo conoscevo da prima. A 14 anni era già un fenomeno. Non aveva paura di nessuno.

Con Antic furono scintille.

Fu lui a piazzarmi davanti alla difesa, ma mi aveva preso di mira. Lo mandai a quel paese. Il giorno dopo Luis Enrique mi portò dall'allenatore, chiesi scusa e mi difese. È stato il mio più grande capitano.

Più di Zanetti?

Zanetti aveva un carisma diverso.

Nel 2003 iniziò il ciclo Rijkaard, con Ronaldinho e pure Davids.

Ma il Milan di Ancelotti mi voleva in cambio con José Mari. Galliani fu il primo dirigente italiano a cercarmi, con un triennale da 1,5 milioni. Ma io pensavo solo al Barça. Con Ronaldinho ci fu subito un bel rapporto: portava lo spirito giusto in spogliatoio. Davids prima di andare in campo si prendeva a schiaffi da solo...

E poi arrivarono Messi ed Eto'o.

Leo è un amico, ma la prima volta in allenamento gli entrai durissimo. Suo padre venne a dirmi che avevo esagerato, ma era l'unico modo per fermarlo. Eto'o era un leader in campo e fuori. Mostruoso tecnicamente e fisicamente. Fu lui la chiave del successo anche all'Inter.

Ma la prima Champions la vinse con il Barcellona.

Saltai però la finale a Saint Denis per scelta tecnica. Comunque Rijkaard sapeva come parlarci. Era uno che ti abbracciava nel suo ufficio. Si vedeva che veniva dalla scuola Milan. Un po' come Ancelotti, altro mio grande allenatore al Psg.

Lei se ne andò dal Barça. E si disse che vinse Xavi.

Non è vero, con Xavi ho un buon rapporto. Come me aveva il Dna calcistico lasciato da Cruijff. Me ne andai per il conflitto con il presidente Laporta. Mi voleva la Roma di Spalletti, ma finii all'Atletico. E mi feci male di nuovo. Dopo tre operazioni al ginocchio mi credevo finito. Il Racing Santander mi scartò. Jorge Mendes mi portò a un provino al Portsmouth, con Lassana Diarra, e mi parlava del Chelsea di Scolari. Ma quello inglese non era calcio per me. Per fortuna il mio procuratore e amico Alessandro Canovi mi portò al Genoa.

E fu allora la rinascita con Gasperini.

Prima il presidente Preziosi mi fece fare due visite mediche e ci litigai sul contratto, in pizzeria a Desenzano. Poi firmai in spogliatoio durante un Genoa-Milan. Anche con Gasp non fu facile. Rischiai di andarmene al primo allenamento, dopo 3 ore di esercizi temevo per il ginocchio. Ma Gasp mi fece innamorare di nuovo del calcio. Anche se il giorno dell'esordio dalla panchina ero senza scarpini e parastinchi perché non pensavo di entrare. Non vi dico le urla del Gasp.

Quindi arrivò l'Inter.

In realtà la Roma mi offriva di più, ma Preziosi venne in spogliatoio a dirmi che mi aveva ceduto con Milito all'Inter. Mourinho mi chiamò per chiedermi se ero pronto ad andare in guerra: era uno che ti sapeva motivare.

Quando capiste che potevate fare il Triplete?

Dopo gli ottavi con il Chelsea di Ancelotti. Ma la svolta ci fu a gennaio, dopo la Coppa d'Africa. Mou rimproverò Eto'o davanti a tutti di non fare abbastanza. E lui si mise a fare pure il terzino. Ma che sofferenza sfidare i miei ex compagni del Barça in semifinale.

La partita con Busquets a terra che sbirciava per vedere se l'arbitro la espelleva.

A fine primo tempo Lucio venne a dirmi di non preoccuparmi perché avremmo vinto lo stesso. Non ce l'ho con Busquets, ma ai miei giocatori dirò di non fare cose del genere. Gli arbitri vanno aiutati.

Dagli anni Inter emerge anche la rissa con Buffon.

Sul momento mi mise paura, ma poi mi telefonò e io gli chiesi scusa. Con lui c'è un bel rapporto. Come con Ibrahimovic, anche se da avversari ci menavamo. Mi diceva: ti aspetto fuori da scuola dei nostri figli, a Milano. Poi però al Psg ho imparato ad apprezzarlo. È uno che come me difende il gruppo, anche l'ultimo dei ragazzi.

Le è dispiaciuto di più saltare la finale Champions del 2006 o del 2010?

Quella con l'Inter. Nel 2006 contro l’Arsenal non ero sicuro di vincerla.

Perché Gasp all'Inter non funzionò?

Era una squadra costruita da Mou per il contropiede. E forse Gasp aveva un carattere troppo intransigente per quello spogliatoio. Idem per Benitez che va bene per squadre senza una forte identità. Comunque eravamo a fine ciclo.

E così se ne andò al Psg.

Branca non mi voleva, diceva a tutti che il problema dell'Inter ero io. Invece a gennaio '12 mi chiamò Leonardo, nonostante avessimo avuto un duro confronto all'Inter. E poi pure Ancelotti. In teoria c'era l'accordo per giugno, ma l'Inter prese Guarin e Moratti mi lasciò andare.

Era l'anno dell'Europeo e di un'altra finale sfortunata, contro la Spagna.

Mi infortunai subito ma la partita era già persa. Quell'Europeo rimane lo stesso un bel ricordo. Il peggiore è il Mondiale in Brasile.

Da oriundo brasiliano.

Non mi piace la parola “oriundo”. Mi sono sempre sentito un italiano nato all'estero. Nel 2006 sapevo che il Brasile di Scolari mi voleva convocare, ma io volevo già l'Italia, anche se non era un obiettivo facile.

All'Europeo 2016, in Francia, ci fu la polemica per il suo numero 10.

Forse Conte avrebbe dovuto spiegare meglio quella sua scelta, invece l'unico a difendermi fu De Rossi e lo ringrazio.

Perché il Psg pieno di soldi e stelle non ha ancora vinto la Champions?

La terza Champions con il Psg era il mio sogno, ma ricordo che l'Inter l'ha rivinta dopo 45 anni. Il Psg ha grandi mezzi e giocatori come Neymar, Verratti, Mbappé, Rabiot che però vanno gestiti nel modo giusto. Il progetto va costruito anche con gli uomini giusti in ogni ruolo.

Più forte Neymar o Messi?

Messi perché ha capito cos'è il calcio. A 20 anni era come Ney, che può diventare più forte di Messi in futuro.

Il suo erede?

Rabiot, se solo volesse. Alla sua età ero meno forte. Gli andrebbe spiegato meglio perché può diventare un grande in quel ruolo.

La sua squadra più forte?

Il Barça del 2006, con Xavi, Iniesta e Deco, il compagno più forte mai avuto.

L'avversario più forte?

Zidane, immarcabile. Non sapevi mai dove si girava.

I suoi quattro paesi calcistici cosa le è hanno dato?

Il Brasile la voglia di emergere e il piacere del calcio. La Spagna l'ambizione e la fortuna di giocare con il mio idolo Rivaldo. L'Italia, la Nazionale. La Francia la possibilità di trasmettere una mentalità vincente.

Ormai da allenatore?

Grazie al presidente Al Khelaifi inizierò con l'Under 19 del Psg. Ma un giorno mi piacerebbe allenare Neymar, lavorando con il mio staff.