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Inter, Hakimi: “Dedico lo scudetto ai miei. Mia moglie? Mi ha insegnato una cosa”

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Le parole del marocchino: "Io sono orgoglioso di avere accanto una persona che lotta per ciò in cui crede e sono felice"

Marco Astori

Nel corso dell'intervista concessa ai microfoni di SportweekAchraf Hakimi, esterno dell'Inter, ha parlato così della sua vita privata, del rapporto con la moglie e non solo.

Cosa vuol dire il tuo nome di battesimo, Achraf?

"Aspetta che guardo, non sono sicuro… Qualcosa riguardo all’amore… È qualcosa di buono di sicuro (ride, consulta il cellulare). Ecco: vuol dire molto onorevole, molto nobile".

Nasci in Spagna da genitori marocchini. Erano immigrati di seconda generazione o sono arrivati anche loro dal Paese africano?

"Avevano lasciato il Marocco per cercare una vita migliore. Mio padre era un venditore ambulante, mia madre ha cresciuto me e i miei fratelli, un maschio più grande che oggi lavora e una femmina, l’ultima della famiglia, che va a scuola. Dopo tanti sacrifici i miei genitori oggi possono finalmente riposare. Penso io a loro".

Hai dedicato lo scudetto a tua mamma perché, hai detto, è stata una delle persone che più hanno lottato per te.

"La mamma è sempre la mamma, ma lo scudetto è pure per mio padre che mi accompagnava agli allenamenti, anche molto lontano da casa. Hanno sostenuto il mio sogno di fare il calciatore, mi sono stati vicini nei momenti di gioia e in quelli di amarezza. Per questo è giusto che oggi io li ripaghi per quel che mi hanno dato".

Come è entrato il calcio nella tua vita?

"Giocavo per strada nel barrio, il quartiere di Madrid, dove vivevo. Lì il calcio piaceva a tutti. Cominciai seriamente proprio nella squadretta del mio quartiere".

Hai sempre giocato in difesa o, come tutti i bambini, volevi stare in attacco per fare gol?

Ride: "Da piccolo giocavo centravanti e facevo tanti gol, tanti gol, tanti gol. Poi un allenatore mi provò sulla fascia: “Sei così veloce”, disse, “è meglio se ti metti lì”. Finii per arretrare sempre di più. A me all’inizio non piaceva perché volevo stare in area e segnare, oggi ringrazio quell’allenatore per essersi imposto: ha fatto la mia fortuna".

È vero che tua moglie Hiba Abouk, attrice marocchina, è più famosa di te in Spagna?

"Ha girato una serie tv che ha avuto successo e quindi oggi molta gente la conosce, ma dipende dai posti in cui siamo e la gente che frequentiamo: a volte riconoscono più me, a volte lei", sorride.

Lei ha dodici anni più di te: ha fatto in qualche modo la differenza nel vostro rapporto?

"Quando conosco una persona non mi interessa la sua età, ma se stiamo bene insieme. Così è successo con lei. Certo, il fatto che non fosse una ragazzina mi ha aiutato a maturare più in fretta. Hiba mi ha insegnato a vivere con più professionalità il mio lavoro. E poi quando ci siamo messi insieme abitavo da solo, grazie a lei sono diventato un bravo uomo di casa".

Tua moglie ha raccontato di aver dovuto lottare per affermare sé stessa e la sua indipendenza. Siete entrambi musulmani praticanti: la sua storia dimostra che si può essere dei buoni fedeli senza rinunciare ai propri sogni e avendo una visione aperta e moderna del ruolo della donna nella società?

"Suo padre vedeva le cose in una certa maniera perché aveva un’altra mentalità. Non era contento che lei facesse l’attrice. Io sono orgoglioso di avere accanto una persona che lotta per ciò in cui crede e sono felice di quello che mia moglie è stata capace di fare finora della sua vita".

Sei arrivato a Milano nel momento peggiore a causa del Covid. Quando si tornerà alla normalità, cosa vorrai fare per prima cosa?

"Andare per ristoranti e tornare a un concerto. Ma soprattutto incontrare di nuovo la gente per strada".

Che musica ascolti?

"Inglese, spagnola, anche italiana. Mi piacciono Ghali, Toni Effe, Capoplaza: insomma rap e trap. Poi la Playstation: Fifa o Warzone. Mira, guarda: se vuoi ti insegno", e mostra il video del gioco.

Con quale squadra giochi a Fifa e tu ci sei dentro?

"Ne ho costruita una mia. Io sono il primo che prendo".

E gli altri?

"Dipende dal costo delle carte… Ma è tanto che non gioco". (dà l’impressione di non voler rispondere per non offendere qualche collega escluso dalla sua formazione ideale)

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