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Malagò: “E’ finita la dittatura della Juve. Inter, incertezze sul calendario. E non vorrei…”

Le parole del presidente del Coni

Marco Astori

Lunga intervista concessa da Giovanni Malagò, presidente del Coni, ai microfoni del Corriere dello Sport. Tra i tanti temi affrontati lo stop allo sport causa Coronavirus, il Var e la corsa scudetto.

Presidente Giovanni Malagò, nel giro di pochi giorni l’Italia è passata dall’indifferenza all’allarmismo per il Coronavirus, e ora fatica a passare dall’allarmismo a una responsabile preoccupazione. A farne le spese è stato lo sport? 

«Da uomo delle istituzioni credo che si sia voluto dare un segnale di sensibilità e di attenzione e confermare la priorità della salute pubblica. Ma questo ha innescato una serie di reazioni a catena con le quali ci troviamo a fare i conti».

Da lunedì che si fa? 

«È ciò che mi chiedono in queste ore atleti, tecnici e dirigenti da ogni dove, soprattutto quelli impegnati nelle qualificazioni olimpiche. Non posso che sperare che il rispetto delle prescrizioni adottate rimetta il Paese nelle condizioni di rientrare nella normalità. Ma nessuno lo può garantire e, di conseguenza, penso che si stia navigando a vista».

 

Se i divieti e le chiusure vanno avanti, c’è un danno per lo sport? 

«Rappresentiamo il 2 per cento del Pil, più l’indotto. Fate voi. C’è un danno economico enorme, ma c’è anche un danno propriamente sportivo. Se ti annullo una competizione in casa, valida per la qualificazione olimpica, la tua squadra avrà meno chance. Se hai una finale di Coppa del mondo di un grande sport, che è a rischio, il danno per quella disciplina si proietta nel futuro. Ed è incalcolabile».

L’eccesso di cautela è figlio di una preoccupazione tipica della nostra classe dirigente di precostituirsi un alibi di fronte al rischio di un dilagare del contagio?  

«Non giudico, perché è facile da fuori dire che cosa si sarebbe dovuto fare. Siamo tutti bravi a fare gli allenatori e i professori. Mi metto nei panni di chi decide. E sono panni complicati. Martedì sapremo se i divieti hanno funzionato, o se sono stati una scommessa persa e pagata cara. Però, al di là delle misure che non contesto e rispetto, è vero che una certa narrazione ha incrementato l’allarme».

Non pensa che la prima cosa da cambiare nel calcio sia l’astrusa regola del fallo di mano, che punisce l’accidentalità, trasformando il gioco in una lotteria? 

«A volte guardo le partite con mio padre. La sua generazione non ha conosciuto neanche la moviola. Mi chiede: ti sembra normale punire la casualità? Penso di averle risposto».

«Sinceramente, non credo. Temo che spezzetterebbe troppo la competizione. Credo che bisognerebbe lavorare a monte. Migliorare la qualità delle decisioni e il rapporto arbitro-Var».

Ma chi deve guidare questo rapporto? L’arbitro, dominus in campo, o il collega davanti al monitor, come avviene in Inghilterra? 

«Guida sempre chi è più bravo, più esperto, più autorevole. A prescindere da come scrivi le procedure. L’elemento umano è decisivo, ecco perché bisogna investire sulla qualità».

 

Il campionato più noioso del mondo è tornato incerto e contendibile: la dittatura della Juve è proprio finita? 

«Mi pare un dato acquisito».

 

Tra la Lazio e Inter chi ha più chance? Provi a giocare la schedina dello scudetto. 

«Faccio un ragionamento di buon senso: chi è concentrato su una sola competizione può metterci dentro tutte le energie fisiche e mentali. La Lazio vive questa condizione».

Vale un vantaggio chiaro? 

«Non userei questa parola. Però, se penso solo alle incertezze dell’Inter sul calendario, anche per via del Coronavirus, non vorrei stare nei panni del povero Conte».

 Cosa pensa della cosiddetta Super Champions? 

«Penso che si confrontano ormai due realtà. Le leghe europee, tutte, dalla Premier alla Liga fino alla serie A, difendono la storia e i campionati nazionali. Ma piaccia o non piaccia, ci sono oggi in Europa 16, o piuttosto 24, o forse 36 squadre che si pongono la stessa domanda: che senso ha continuare a far giocare Real Madrid-Leganes? Ed è una domanda che ha un fondamento. Negarla significa porsi fuori dalla realtà, in un passato nostalgico. Se si tira troppo la corda, c’è il rischio che si produca una scissione. E che si rompa il giocattolo. Meglio trattare, con la ragionevolezza. La strada si trova».

«Ci può stare. Può essere che Commisso segni una discontinuità rispetto al ruolo avuto in Lega da Della Valle, può essere che Friedkin si muova diversamente rispetto a Pallotta. Vedremo che succede».

Friedkin è di un’altra pasta rispetto a Pallotta? 

«In via di principio chi compra perché coinvolto in un fondo di private equity ha un tipo di cultura più speculativa, rispetto a un imprenditore classico. Poi magari le cose vanno diversamente, e Zhang uscirà dall’Inter prima del fondo Elliott dal Milan. Ma nella maggior parte dei casi l’attività di impresa è una garanzia».

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