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Raiola: “Se mi chiamano ‘pizzaiolo’ come Mihajlovic? Ne sono fiero! Ai miei giocatori dò…”

Nel corso della lunga e intensa chiacchierata con il Corriere dello Sport, Mino Raiola ha raccontato molto di sè e della sua vita da procuratore. Dalle origini fino alla fama mondiale, per colui che lo stesso Corriere ha denominato mister 300...

Dario Di Noi

Nel corso della lunga e intensa chiacchierata con il Corriere dello Sport, Mino Raiola ha raccontato molto di sè e della sua vita da procuratore. Dalle origini fino alla fama mondiale, per colui che lo stesso Corriere ha denominato mister 300 milioni.

Raiola, che effetto le fa aver concluso operazioni e trasferimenti nel calcio per oltre 300 milioni?

«Nessun effetto e certo non credo di essere speciale. Io mi sento solo Mino. Sono felice se vengo apprezzato dalla mia famiglia e dai miei giocatori. La mia immagine pubblica non mi interessa perché nel mondo c’è sempre chi ti ama e chi ti odia per quello che dici o che fai. I miei punti di riferimento sono i miei familiari e i miei calciatori che tratto come figli. Loro lo apprezzano».

E’ questa la filosofia che l’ha portata a diventare il re del mercato?

«Non sono al mondo per piacere agli altri, ma per fare quello che è giusto. Io sono al servizio dei miei giocatori ai quali do tutto, il 150% di me stesso. Sono fiero di me quando faccio il loro bene. E non mi interessa né dei sacrifici che devo compiere, né dei soldi. Quelli non contano. Per me è importante la qualità del lavoro e i risultati che si raggiungono».

La sua formula di lavoro l’ha portata ad essere considerato un punto di riferimento per molti colleghi?

«Non so se sono un punto di riferimento per gli agenti. Mi basta esserlo per i miei giocatori. Se poi lo sono anche per altra gente, bene. Spero che la mia storia insegni che si può diventare quello che si vuole. Che nella vita non è giusto porsi limiti o accontentarsi. E’ bello sognare e poi rincorrere i propri sogni. Al tempo stesso però bisogna ricordarsi che senza sacrifici non si ottiene niente. Nessuno è nato sapendo tutto. Per diventare il miglior giocatore al mondo, il miglior industriale o il miglior ristoratore ci vuole fortuna, ma soprattutto sono necessari la voglia di imparare, la capacità di rialzarsi quando si cade, la predisposizione ad aprirsi al mondo. Gli italiani devono iniziare a guardare oltre i loro confini. Il mondo non è l’Italia».

Se la chiamano “pizzaiolo”, come ha fatto qualche anno fa Mihajlovic, come reagisce?

«Pizzaiolo non è mica una parola dispregiativa o un’offesa. Ho lavorato nel ristorante di mio padre Mario ed è stata questa esperienza che mi ha fatto diventare la persona che sono oggi. Io non dimentico da dove sono venuto e non rinnego il lavoro onesto che ho svolto. Anzi, ne sono fiero. A fare il cameriere e a servire ai tavoli si imparano tante cose, prima di tutto il rispetto delle persone. Il cameriere tratta tutti allo stesso modo, dal più potente imprenditore all’operaio. Mi hanno insegnato a non giudicare nessuno e ad ascoltare tutti. Il ristorante è stato la mia università. Anche se io l’università l’ho frequentata...».

Che facoltà?

«Ho studiato giurisprudenza ad Amsterdam. Sono arrivato a pochi esami dalla fine, ma poi ho dovuto mollare perché a vent’anni avevo già creato la mia prima società: si chiamava Intermezzo e si occupava di intermediazioni e consulenze non in ambito calcistico. I miei clienti erano le aziende italiane e olandesi che avevano problemi nello sviluppare i loro affari. Io dovevo mettere le cose a posto». 

Già allora aveva talento negli affari.

«Ho imparato tanto da mio padre. Lui è un perfezionista: mi ha insegnato come organizzare per bene le cose, mi ha spiegato che è fondamentale andare fino in fondo quando inizi un lavoro, che non bisogna porsi limiti. Ho frequentato il ristorante di famiglia ad Haarlem da quando avevo 11 anni perché volevo stare con lui e i miei zii. Però ho anche studiato: prima il liceo classico, poi l’università. Non stavo mai fermo... Mio padre faceva tutto il possibile per rendermi felice, ma sulle regole del lavoro nessuna deroga: alle 6 del mattino in casa mia suonava la sveglia per organizzare la terrazza del ristorante. Potevo andare a letto anche alle 5, ma per le 6 dovevo essere in piedi. Adesso mio padre ha 87 anni e non gestisce più i ristoranti che abbiamo. Ci pensano alcuni miei familiari, ma lui per me è sempre un punto di riferimento».

(Corriere dello Sport)