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Tardelli: “Superlega? Che amarezza vedere la mia Juve tra le promotrici. Tifosi non sono clienti”

Lungo editoriale di Marco Tardelli sulle colonne de La Stampa. Ecco il suo pensiero in merito alla Superlega

Matteo Pifferi

Lungo editoriale di Marco Tardelli sulle colonne de La Stampa. Ecco il suo pensiero in merito alla Superlega:

Io sono contento, anzi rinfrancato. Perché la reazione che ha provocato in tutto il mondo questa folle idea di un privè e del calcio per soli vip, innanzitutto nei tifosi delle squadre coinvolte, dà a quei ricchi e potenti signori del pallone una grande lezione e a noi poveri sportivi un bel segnale di speranza. L’unica vera amarezza per me è che una delle promotrici di questa Superlega sia la mia Juventus, non più dell’Avvocato Agnelli e di Boniperti. Ma sempre quella Juve che ancora conservo scolpita nella testa e soprattutto nel cuore. La lezione è chiara e semplice, il calcio non può essere solo business e i suoi tifosi non possono essere trattati soltanto da clienti silenziosi e remissivi. Noi accettiamo che le leggi del mercato regolino in tutto e per tutto le nostre vite, ormai in ogni campo. Ma nel calcio, lo spazio delle nostre evasioni e soprattutto delle nostre emozioni, deve esserci un limite, e questo limite si supera quando i sentimenti non hanno più libertà di agire, per dirla con una metafora calcistica, non hanno più margini di manovra.

La Superlega sarebbe esattamente questo: una manovra che asfissia il gioco dei sentimenti e delle passioni. E a questo gioco, si sono ribellati praticamente tutti in queste ore. E può sembrare un paradosso, perché a vedere dieci Real-Barcellona in una stagione non ci si annoierebbe di certo, tutt’altro. Ma una grande bellezza risulta fredda, distante, poco attraente, se non smuove qualcosa di profondo dentro di noi, se non ci fa piangere, urlare, tremare e gioire, se non arriva dritta al cuore. E soprattutto, e lo dico da sportivo, se non ti concede l’opportunità di lottare per un sogno.

Un sogno impossibile finché non si realizza. Ecco, tradotto nel linguaggio del calcio e dei suoi meccanismi: se mi propinano una Nba del pallone che se ne infischia del merito, a cui non si può accedere se non per pedigree, preferisco un campionato meno blasonato che mi stupisca con vittorie inaspettate ma sognate. Che mi facciano inorgoglire e esultare. Sennò alla fine chi sfotto al bar il lunedì mattina, chi invito sul divano di casa a tifare con me, chi aspetto di ritrovare al posto accanto al mio, in curva (speriamo presto)? Ebbene ce lo siamo chiesti in tanti, in queste ore. E questo moto, oserei dire, dell’anima, è il segnale di speranza cui accennavo poco fa. Il segnale che questo nostro calcio pur ammaccato, indebitato e abbandonato, ci spinge ancora a riconoscerci in una comunità, se avvertiamo che qualcosa, o qualcuno, lo sta mettendo in pericolo. “È il momento di fare un calcio meno arrogante”, ha detto Rummenigge, un gigante del pensiero rispetto a tanti dirigenti che la vulgata popolare di questi anni ci ha spacciato come super manager, e invece sono stati capaci solo di costruire montagne di debiti.

Sono d'accordo con Kalle, e aggiungo: anche con meno soldi. La morale di questa storia è che se il giocattolo è rotto dobbiamo aggiustarlo, non sostituirlo con uno più costoso, che in pochi si possono permettere. E allora facciamo che questa faccenda sia un avviso ai naviganti di Uefa e Fifa: avete tollerato troppo, avete fatto finta di non vedere, il sistema è drogato e viaggia al di sopra delle sue possibilità. Mi ricorda una frase dell’Avvocato di 40 anni fa quando, a Villar Perosa, diceva a noi giocatori: “Attenti perché noi italiani tendiamo a vivere al di sopra delle nostre possibilità”. Beh col senno di poi quanto aveva ragione. E allora, vi prego, metteteci mano, anche con decisioni coraggiose. Rispettate i tifosi, che sono i primi proprietari di un club. E forse, dagli scricchiolii sinistri che sento già oggi, l’hanno capito anche quei geni della Superlega. Come diceva il maestro Manzi? Non è mai troppo tardi

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