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Mourinho: “Sono un’icona perché sto bene con me. La mia filosofia e la mia eredità…”

L'allenatore del Manchester United ha rilasciato una lunga intervista a GQ nella quale ha parlato del suo modo di intendere il calcio e il talento

Eva A. Provenzano

“Un uomo che ama tenersi occupato”. Così GQ definisce José Mourinho nell’introduzione ad una lunga intervista fatta all’allenatore del Manchester United e ovviamente ex Inter. Lui è questo e tanto altro. Lui si descrive in questo modo:

GIROVAGARE –“Se mi capita mai di fare un giro giusto per il gusto di farlo? Guido sempre in Portogallo. Quando atterro a Lisbona c’è un autista che mi porta la mia auto in aeroporto e me ne vado a fare in giro. Lì i controlli della Polizia sono diversi e devi fare qualcosa di veramente brutto per essere punito. In Inghilterra sono stato sorpreso ad andare a 48miglia all’ora dove si andava a 40 e mi hanno tolto la patente per un paio di mesi. Non sono un pilota pericoloso, non faccio pazzie. In Inghilterra ci vivo per lavorare e mi piace avere l’autista. Mi piace la :comodità della Jaguar, un mio amico dice che è un appartamento mobile. Esco di casa alle 7:45 e ho 45 minuti per fare tutto e dopo una partita mi piace girare a Londra, non mi interessa se c’è traffico, mi piace disconnettermi dal mondo e con quella macchina è come avere un jet privato per strada”.

A MANCHESTER –“Come mi trattano a Manchester? Bene, fin troppo. Tanto che devo quasi mettere limiti alla mia vita sociale. Mi chiedono foto, autografi, vogliono parlare con me. Anche in una città dove ci sono altri club non trovo ostilità, ci sono i tifosi del Liverpool o dell’Everton non lontano da qui, ma non ho mai incrociato ostilità, la gente qui è davvero grande”.

MOU E I TIFOSI –Sono conosciuto in ogni posto della Terra, in ogni stadio del mondo quando mi vedranno avranno una reazione. Normalmente si comincia con un insulto o un coro ma poi mi chiedono una foto e quindi mi trovo bene con tutti gli appassionati di calcio. Durante la partita non gli piaccio, forse hanno paura o temono le mie squadre, ma prima o dopo la partita mi trattano bene”.

ESSERE UN’ICONA –“Le persone che fanno bene sono di solito quelle che stanno bene con loro stessi. Penso di essere un’icona senza esserlo. Sono un’icona perché mi sento a mio agio con me stesso. Per me questo è il miglior concetto di icona. Non importa quello che pensano gli altri o quello che dicono, ti preoccupa solo come ti senti tu. Per essere pronti ed adattarsi in un determinato momento. Posso citare alcune persone che sembrano sempre corrette. Come Sir Sean Connery. Che classe. Non stava andando in nessun posto in particolare, ma era proprio così naturale. Credi che gli uomini più grandi di me abbiano proprio questo. Per questo tipo di persone il tempo non passa mai. Come De Niro, Al Pacino. Sono stelle per sempre. In questo momento invece le persone vanno e vengono. Non credo che la nuova generazione durerà allo stesso modo. Essi appaiono, conquistano il mondo, scompaiono di nuovo. Poi il prossimo anno arriva un’altra stella”.

GEORGE BEST –“Come si gestisce un talento del genere? E’ difficile gestire certi calciatori. Per me come allenatore è difficile combattere la natura delle persone e la natura delle cose. I giocatori di calcio sono con noi 4-5 ore al giorno e il giorno è fatto da 24 ore. Le altre 18-19 ore le passano con famiglia, amici, amici ipotetici, hanno diverse persone che li circondano e gente che a volte forse non li aiuta. E’ molto difficile controllare questo. Bisogna cercare di influenzare positivamente, ma non si può mai completamente trasformare la loro natura o controllarli naturalmente, non credo si possa fare. Chi ha un super talento ha anche questa parte. Le persone con grande talento possono avere dei punti deboli. Devi essere fortunato. Con qualcuno come George Best devi esserlo. Non l’ho mai visto giocare dal vivo, ma so tanto di lui, mi ricordo tante cose. Persone come lui arrivano sulla terra, vivono per un certo periodo e lasciano un segno incredibile. Si dice spesso che ci lasciano troppo presto, ma bisogna guardare a cosa hanno lasciato”.

L’EREDITA’ – “Se ho pensato a cosa lascerò io al calcio? Ho una grande eredità. Ma c’è una cosa che è davvero importante per me. Ho cambiato la vita dei dirigenti portoghesi. Dopo il 2004, quando ho cominciato a prendermi il mio spazio nel mondo del calcio, gli allenatori portoghesi hanno cominciato ad avere qualcosa che non avevano mai avuto, un po’ di credibilità e un po’ di possibilità. Si sono aperte le porte. Ora lavorano in tutto il mondo e questa è la mia eredità. Dopo di che si possono discutere i miei metodi, il mio modo di allenare, ma le porte si sono aperte quando sono andato in Inghilterra, in Spagna e in Italia".

SE SI SA SOLO DI CALCIO NON SI SA NIENTE DI CALCIO –“Questo è il mio motto, sì. Me lo aveva detto il mio insegnante di filosofica al liceo, quando avevo 18 anni. Non ero interessato alle sue lezioni, mi vedeva che avevo la testa altrove, me lo ha fatto notare e io gli ho detto che la sua lezione non mi interessava perché volevo fare l’allenatore e non il filosofo e mi ha risposto che un giorno mi sarei reso conto che la filosofia è importante quanto le altre discipline. E aveva ragione. Più si sa e meglio è in generale, anche se non c’entra niente con il proprio ruolo. E’ necessario come allenatore saper parlare più lingue possibili per creare empatia. Per esempio non parlo tedesco, ma so dire qualche parola, non parlo lo svedese, ma con Ibrahimovic parlo in italiano. Se vado ad una partita di Champions o di Europa League e vado a giocare in Ucraina e capisco come stanno le cose lì posso dimostrare una sensibilità diversa in conferenza stampa e posso rispondere alle domande in maniera intelligente se conosco la sensibilità degli altri. Ogni grammo di cultura e di conoscenza che hai non è un peso, è un grammo in più, ma non un peso, gioca a tuo favore e migliora le tue prestazioni. Non voglio essere più intelligente degli altri, ma curo i dettagli". 

I GRANDI GIOCATORI –“E’ importante averne in squadra. Se si sta parlando di personalità parliamo di un ragazzo che vuole essere un leader, che vuole assumersi le sue responsabilità, che è sicuro di sé, che se c’è un rigore all’ultimo minuto lo vuole tirare. Se una squadra perde uno a zero si prende la palla, organizza il gioco, dimostra di avere un desiderio evidente di vincere, che può giocare anche se è dolorante, se è ferito. Se avessi undici di queste personalità avrei undici grandi giocatori”.

(Fonte: gq-magazine.co.uk)