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Zenga: “Inter casa mia. Allenarla? Il mio percorso non me l’ha permesso ma…”

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L'ex portiere dell'Inter si racconta al Festival dello Sport: queste le sue dichiarazioni raccolte da FcInter1908.it

Marco Astori

Walter Zenga, ex portiere e leggenda dell'Inter, è intervenuto nel corso del Festival dello Sport di Trento in un evento a lui dedicato. Queste le sue dichiarazioni raccolte da FcInter1908.it, presente alla manifestazione.

Presenti il tuo libro?

L'ho scritto perché a 60 anni ho qualcosa da dire e perché due c'è un episodio influenzato la voglia di scriverlo: la lettura dell'autobiografia di Agassi, che odiava il tennis, ma io invece adoro il calcio. Non c'è un racconto calcistico, si mischia vita e carriera. C'è una divisione fondamentale nel libro, due personaggi che viaggiano paralleli: uno è l'uomo, che ha i problemi della vita di tutti i giorni, l'altro è lo sportivo, che è totalmente differente. Quando andavo agli allenamenti andavo due ore prima e andavo via per ultimo: lì tutti i problemi restavano fuori.

Lo sport è un impermeabile che ti consente di non avere i problemi normali. Anche da allenatore succede: però quando giochi ti nascondi in uno spogliatoio, da allenatore non puoi perché il leader non può mai dare la sensazione di essere debole. Mihajlovic è un fratello per me, lui ha detto la verità. In questo libro insisto su questi due aspetti: c'è una visione dell'atleta come Highlander, in realtà c'è l'uomo che è pieno di casini. La forza di una persona è quella di separare le situazioni: a me succede così ed è un pregio.

Quando hai imparato a farlo?

Da subito perché io ho una famiglia di genitori separati: io e mio fratello siamo cresciuti con la nonna, andavo a fare la spesa a 8 anni. Sono stato da sempre capace di separare i problemi: non navigavamo nell'oro. Da subito ho dovuto mettermi l'impermeabile che faceva scivolare tutto, se crollavo io crollava tutto. Se hai un problema hai due possibilità: o lo eviti, e ti si ripresenterà, o lo affronti, andando poi a testa alta.

Tuo padre?

Io non volevo vederlo, mio fratello invece continuava a tenere i legami. Mio padre giocava in porta, mi aveva regalato da piccolo il completo da portiere e il pallone della Serie A: avevo la fortuna di avere il pallone che nessuno aveva. Il problema è questo: la mia prima partita da allenatore in Italia l'ho giocata contro la squadra di mio padre e lui era lì. Recentemente ho avuto un problema grande con il rapporto con i miei figli: ero stato accusato di mancanze e di non essere un buon padre. Io ho spiegato nel libro cosa si sente dalla parte del figlio: io ho provato la stessa cosa.

Quando giocavo io sapevo che lui c'era sempre ed è una cosa che mi ha devastato. Quando è nata Samira io avevo quasi 50 anni, Walter Jr 52: una maturità differente. Le persone crescono, non puoi pretendere di conoscere una persona e che lei sia la stessa nel tempo: si cambia, la vita insegna tanto. E' inevitabile maturare e ponderare le situazioni. Ecco perché ho vissuto di più gli ultimi due figli rispetto ai primi: lì ero sempre in giro per il mondo a giocare, con gli ultimi ero allenatore ed era più facile viverli. L'unico figlio che non ho visto nascere è Nicolò, stavo giocando una partita di campionato: gli altri li ho visti nascere tutti.

La maturità?

I fallimenti fanno parte del successo. Più parli di una sconfitta, più attiri negatività. Ognuno di noi ha un valore, l'importante è riconoscerlo. Non è vero che se uno ha un posto ha più valore di un altro, ha solo un talento differente.

Il tradimento alla Sampdoria?

Io vivo a Dubai dal 2010, non ho più niente in Italia, né io né la mia famiglia. Anche se Milano è sempre casa mia. Alla Sampdoria i miei bimbi andavano ancora a scuola, io parlo con il mio staff e dico: nelle prime due soste resto io qui a fare allenamento perché poi a novembre vado a casa a Dubai per tre giorni. Io passo quindi tutto il lunedì con la società al mercato perché volevano vendere Soriano ed Eder, io mi oppongo e ci riesco: un giorno perso. A novembre invece mi dicono che si doveva fare un'amichevole a Istanbul col Galatasaray: io mi accorgo che due del mio staff parlano con il ds e pensano che l'amichevole sia giusta. Era giovedì, il lunedì mi mandarono via. Ma ho preferito sia stato così. Queste due persone hanno poi preso il settore giovanile e l'unger 18, coerenza massima. Il tradimento può essere di qualsiasi cosa: prima quando uno mi tradiva ero furioso, in realtà la colpa era mia perché non avevo capito bene il valore di quelle persone. Mi ero fidato di loro, ero io che avevo sbagliato.

E' più facile che tu vada in Africa o in un Australia?

Per come ho la testa io in Australia, ci andrei domani. Io ho allenato 17 squadre in 3 continenti: quando giri così tanto, hai uno spirito di adattamento che è pazzesco. La cosa più bella è che hai una conoscenza di tutte le culture. Il Ramadan? E' un periodo di un mese dove non mangiano e non bevono per un mese per certi orari, il problema sono le cinque preghiere che dicono al giorno. Mi è capitato anche di allenare alle 11 di sera o cenare alle 3.30 del mattino: i giocatori sono abituati, ma io come facevo? Per me è era traumatico, andavo con lo staff al mattino alle 20, prima delle 5 non andavo a dormire. Quando poi giochi ad una determinata ora, capitava la preghiera nell'intervallo: se parli subito e poi pregano se lo dimenticano, se lo dici alla fine può essere che non ti ricordi cosa dire. Quindi devi dire poche parole, trasmettere ed essere chiaro in 30-40 secondi.

Più difficile parlare ad un presidente o ad un giocatore?

E' più facile parlare con un giocatore. Il presidente è una persona che è al di sopra di tutto: hai un rapporto con lui professionale, di stima. Il giocatore lo vivi tutti i giorni nello spogliatoio, in campo e nelle litigate che ci fai: col presidente è un rapporto tra grandi.

Il bullo di viale Ungheria?

Per chiunque il luogo in cui sei nato lo porti nel cuore per sempre, non puoi scindere la vita da quel posto. Quando leggiamo la parola bullo pensiamo allo spaccone: in realtà il bullo nella mia immaginazione è quello che difende i diritti dei più deboli. Un mio amico entrò un giorno in latteria con 100 lire, comprò un gelato e volle 50 lire di resto, ma il gelataio disse di no. Io dissi al lattaio di dargli il resto oppure sarebbe successo un casino. Io passai come bullo, come con Varriale: il titolo non mi ha ferito, mi ha inorgoglito, mi ha fatto capire che avevo ragione. Il litigio nacque da una situazione di una settimana precedente, difesi il mio diritto di prendere mie decisioni.

Il video di Zalewski?

Bisogna stare attenti ai social. Io avevo la fortuna di non averli, ma ho avuto anche la sfortuna di non avere i telefonini: nell'86 c'era una partita della nazionale, ci allenammo fino al venerdì per poi avere sabato e domenica liberi. Io andai a farmi due giorni, ma il pomeriggio venne la febbre a Galli e la squadra partì per andare in Irlanda in amichevole: mi chiamarono prima ad Appiano dove ci allenavamo e poi a casa mia ma io non c'ero. Quindi sui giornali scrissero che ero a St Moritz con una persona: ma io avevo due giorni liberi e potevo andare con chi volevo. Non è colpa mia se hanno inventato i telefonini dopo: io avrei sicuramente risposto alla convocazione.

La cessione dall'Inter alla Sambenedettese?

Io ho una cicatrice dalla caviglia al piede. Io giocavo in prestito al Savona in C2: a fine campionato faccio una visita e vedo che una caviglia è più gonfia. Il medico fece le lastre, mi disse che era una stupidata: non era una borsite, avevo un muscolo in più nella gamba. Ma i punti una volta non erano come oggi: mi cucirono e io dovetti restare fermo col piede per un mese. Mi chiamò l'Inter per dirmi poi che dovevo firmare il contratto con la Sambenedettese, ma io zoppicavo e avevo la caviglia aperta: andai a comprarmi delle scarpe rosse e dei pantaloni rossi, almeno il sangue non si vedeva. Sonetti mi guardò e mi disse: spero che tu sia estroverso anche da giocatore. Io firmai e piano piano si chiuse la ferita. Io sono sempre stato attento a non pensare al problema ma alla soluzione.

Il ritardo all'allenamento con Sonetti?

Io non sono mai arrivato in ritardo, è un mio orologio mentale: arrivo sempre prima. Anche agli allenamenti, non ne ho mai mancato uno. Quella volta io abitavo vicino allo stadio, dovevo solo attraversare la strada: non mi è suonata la sveglia e sono arrivato venti minuti in ritardo. Sonetti mi disse: complimenti, mettiti in porta adesso. Lui si mise a tirare, dieci palloni e dieci gol: quanti insulti. Seconda serie uguale. Lui mi disse di svegliarmi altrimenti non avrei giocato la domenica. Mentre lui si girò io iniziai un "vaffa", lui però si girò immediatamente: io ci misi 12 secondi netti a fare dalla porta allo spogliatoio per chiudermi dentro. Il rapporto con gli allenatori era diverso: ad una cena mi sedetti di fianco al mister che mi chiese se fumassi, io risposi di sì.

La vita sentimentale?

La mia unica cicatrice è il rapporto con mio padre. La famiglia è rappresentata dai figli e dai genitori: sono assolutamente convinto di questo.

Gli esoneri?

Nel momento in cui fai l'allenatore ti assumi il rischio di poter non portare a termine il tuo lavoro: non c'è nessun problema se le strade si dividono. Con l'esonero subentrano mille aspetti diversi. Con il Wolves è un esonero in cui non potevo fare nulla: sono stato stritolato nel sistema, l'unica possibilità era vincere. Le mie ultime partite sono 1-1 il derby con l'Aston Villa, con l'arbitro che ce ne fece di ogni, con il Norwich perdemmo 2-1 e l'ultima perdemmo 1-0 col Leeds: tutte partite al limite. Sarebbe bastato un pizzico per restare.

Tornare all'Inter?

Non alleni la squadra del cuore per diritto divino. Io hai fatto 22 anni all'Inter e ho fatto 473 partite, oggi ne avrei fatte 700, ma non per forza sarei dovuto diventare l'allenatore: io avrei voluto, il mio percorso non mi ha permesso di farlo e di poter esserlo. Non ho dato le carte a chi doveva decidere, evidentemente non sono così bravo e il mio livello era un altro. Io però quando ho fatto una scelta e non ho mai cambiato: due giorni fa ero ad Appiano ed è casa mia. Anche se è cambiato tutto è casa mia. Io mi ricordo tutte le partite, ogni singolo episodi: ho rimosso solo una partita, Sambenedettese-Matera quando si è incendiato lo stadio.

L'Inter del Trap?

Eravamo molto uniti, complici. Avevamo una superstizione stupida: se vincevamo, tenevamo gli stessi posti sul pullman, altrimenti cambiavamo. Non ha senso, però è una roba che ti influenza. Io sempre telefono prima della partita a mia moglie: è una sorta di serenità interna.

Dove trovi la voglia di allenare da zero dopo una carriera così?

Grazie alla passione. Recentemente sono stato in lizza per allenare la nazionale dell'Iraq: io vivo a Dubai e andrebbe benissimo. Hanno scelto Advocaat, ha 74 anni: io ho ancora 13 anni di carriera. Io ragiono così, è come invecchi che fa la differenza. Aver fatto una carriera importante da giocatore non mi ha saziato: voglio essere il protagonista della mia vita fino in fondo. Non voglio essere un pensionato di lusso, voglio avere il mio staff e parlare delle partite.

Cosa vorresti fare nell'Inter oggi?

Ogni volta che vado a San Siro sembra che ho smesso ieri, invece ho giocato l'ultima partita nel '94: questa è la mia più grande vittoria.

 

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