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Chivu: “Lo scudetto dell’anno scorso non fu una sorpresa. Bel gioco? Scelgo vincere”

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L'ex difensore dell'Inter, oggi allenatore della Primavera nerazzurra, si racconta fra ricordi da calciatore e vita da tecnico
Fabio Alampi Redattore 

Cristian Chivu, ex calciatore dell'Inter e oggi allenatore della Primavera nerazzurra, si è raccontato nel corso di un'intervista concessa a Sportitalia: "L'Inter era la squadra più forte del campionato. Affrontandoli, giocandoci contro, mi rendevo conto quanto era forte quella squadra. Avevo capito che per me era arrivato il momento di cambiare squadra, ho scelto io dove andare e ho scelto l'Inter. La scelta non fu accolta bene dall'ambiente Roma, però era una situazione in cui dovevo pensare a ciò che mi rendeva felice. Ero testardo e quando non sento più fiducia intorno a me, devo prendere delle decisioni, e l'Inter fu una decisione giusta. Vincere i titoli, i trofei, è stata una cosa fondamentale".

E negli annali, l'anno del Triplete: quali furono le emozioni di quell'anno magico?

"Tutto nasce strada facendo, non è stata una cosa programmata. Quando giochi nell'Inter hai come obiettivo di cercare di vincere tutto. Però poi arrivi nel mese di maggio e ti trovi coinvolto in tutte le competizioni possibili. Senza rendersi conto si va avanti, partita per partita e si arriva a quel 22 maggio. Un'emozione indescrivibile: vincere non è mai scontato, ci vuole un po' di fortuna e ci vogliono le persone giuste in un ambiente giusto che viene creato per darti la possibilità di vincere".

Mourinho nello spogliatoio prima della partita che ha detto?

"Non mi ricordo. Avevamo parlato tanto in quella settimana. Siamo arrivati a Madrid un paio di giorno prima: la partita era sabato, noi siamo arrivati di martedì. Quello che parlò prima della partita nella riunione fu Samuel Etoio. Lui la Champions l'aveva vinta... Una finale di Champions non è mai semplice da gestire dal punto di vista emozionale. La paura che un giocatore può avere è rispondere alla domanda: "E se perdessimo?". Nonostante sei consapevole del percorso e di quanto sei forte, rispondere a quella domanda non è mai facile".

Chi è il giocatore più forte con cui hai giocato?

"Ho avuto la fortuna di giocare con tanti. Non è giusto parlare di uno o due. Ci sono stati giocatori talentuosi, altri hanno fatto la loro strada con il lavoro. Arrivare a certi livelli è una combinazione di tante componenti: dal lavoro al talento, dalla gestione all'aspetto mentale. Poi ovvio che spicca quello chi fa gol o chi delizia il pubblico".

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6 gennaio 2010: la gara con il Chievo e il fallo di Pellissier.

"Era il mio giorno di rinascita! L'autoironia fa parte del bagaglio che ho acquisito strada facendo. Non è stato un momento facile da gestire, avevo tante incertezze, non sapevo come sarebbe finito tutto. Nella sfortuna, sono stato fortunato: è mancato poco che non riuscissi più a parlare e a muovere la parte sinistra del mio corpo. Questa è fortuna. I giorni di convalescenza, le mille domande che mi facevo, l'incertezza di non riuscire a essere più un calciatore professionista, con la fortuna di essere ancora un uomo normale. Mettevo sulla bilancia le due cose. Il mio primo pensiero è stato: riuscirò a gioire con mia figlia? Riuscirò a essere un padre "normale"?Per fortuna sono ancora qui. Ho avuto tutto, sono tornato a giocare. Ma è stato un periodo difficile. Mi avevano detto che sarebbero serviti mesi, dopo due mesi e mezzo ero in campo, con le mie paure e incertezze, soffrivo durante le partite soprattutto nel colpo di testa. Mi sento fortunato. Ci tengo a specificare delle cose che non ho mai detto: tutte le cose subite nel post intervento, con tutte le medicine che prendevo, mi avevano portato a fare delle cose che non facevano parte di me. A partire dai gesti osceni fatti dopo la partita di Coppa a Roma, al pugno a Marco Rossi, alla litigata con Rafa Benitez. E nessuno sa che prendevo delle medicine che mi toglievano i filtri. Mi ricordo che i miei compagni chiamavano a casa mia moglie e chiedevano se tutto fosse a posto, se io a casa sono aggressivo, se mettevo le mani addosso. Ci tengo a specificarlo, perchè poi vengo giudicato per uno che è andato a Roma a fare quei gesti osceni, nonostante ho chiesto scusa. Tutto culminò con il pugno a Marco Rossi: fu come un animale che reagisce al primo istinto, però c'è un perchè. Avrei dovuto prendere quelle medicine per 2 mesi, ma le ho portati avanti per 9 mesi. Ci tenevo a dirlo".

Rome e Inter, da una parte Luciano Spalletti dall'altra Jose Mourinho: due allenatori vincenti. Cosa ti hanno dato?

"Mi hanno dato tanto e non solo loro due, anche quelli che ho affrontato. Ho sempre cercato di guardare il lato umano di un allenatore, avevo tanta fiducia nelle mie qualità. Nasce dal guardare mio padre, dopo l'allenamento, che con carta e penna pensava a quello che doveva fare. Sono 2 allenatori vincenti, ma potrei citarne altri. Coerenti, inesti,che hanno voglia di migliorare i giocatori. Sono 2 vincenti. Mourinho ha tanto carisma, è integro, ha conoscenza di campo e sensibilità e fiuto nel capire la persona che ha di fronte. Vale lo steso per Spalletti: è uno che migliora i giocatori, che crede tanto nel lavoro".

Da calciatore alla tuta da allenatore: ci racconti di questo passaggio?

"Tutto nasce dall'UEFA, quando andavo ad analizzare le partite di Champions ed Europa League. Siccome ero l'unico senza patentino di tutto quel gruppo, dove il nostro capo era Alex Ferguson, dissi: "Non posso andare lì solo perchè ho giocato a pallone e sono in grado di fare un'analisi tattica". Quindi ho iniziato a seguire il corso a Coverciano. I contatti con l'Inter? Erano anni dove mi avevano proposto di iniziare a lavorare con il Settore Giovanile. Ho avuto un incontro con Piero Ausilio e Roberto Samaden in America: all'inizio non me la sentivo, avevo voglia di passare del tempo con la mia famiglia, poi si rinnovò quell'offerta e accettai volentieri, partendo da una squadra non agonistica. Ho sceltoio di partire dal basso, volevo vedere se ero bravo a far capire ai ragazzi le mie idee. Non è quello che tu sai, ma quello che riesci a far capire. Quest'anno sono fortunato e chiuderò un ciclo: ho iniziato con i 2005 e mi ritrovo tanti di loro in Primavera nonostante siano sotto età. Mi fa piacere vedere che qualcosina di quello che avevo trasmesso all'epoca la riconoscono e se la portano avanti".

Che rapporto hai con Samaden?

"Analizzo sempre l'uomo e la persona: è una persona per bene. A livello del Settore Giovanile non ha paragoni. Una persona che mi sento onorato e orgoglioso di aver conosciuto".

L'anno scorso arrivò lo Scudetto con la Primavera.

"Per me non è stata una sorpresa. La fortuna mia è stata lavorare con loro due anni. L'anno scorso era il terzo, sapevo quelli che erano i punti deboli di quel gruppo, ma soprattutto a livello individuale, le carenze e le mancanza. A metà stagione abbiamo fatto lo switch, ci siamo detti in faccia le cose che non andavano e tutto culminò con la vittoria dello Scudetto. Non è mai facile, ma per me non era una sorpresa, dovevamo solo capire i tasti giusti e metterli nelle condizioni di nascondere qualche deficit. Siamo stati bravi a farlo. Tutti parlano della finale, ma l'emozione più grande l'ho avuta in semifinale con il Cagliari, al terzo gol: ho ancora la pelle d'oca. Una cosa così forte, lo dissi anche ai ragazzi dopo la partita, li ho ringraziati. Quel gol è stato straordinario".

Una gara folle, di rivincita.

"Il calcio è questo: si passa da un'emozione all'altra come il tempo, dal sole alla pioggia. Da pensare a "che figura di m**** che stiamo facendo", perché eri sotto 3-0, a gioire e vivere un'emozione del genere. Questo è il bello del calcio. Bisogna sempre crederci, dare tutto e uscire a testa alta, con il coraggio di guardare negli occhi i tuoi compagni e il tuo allenatore".

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C'è chi si divide tra il bel gioco e il risultato: è così?

"Sarebbe ideale avere entrambe, ma non è sempre così, pochi hanno questa possibilità. Il bel gioco e il vincere passa dalla qualità che hai in campo a livello individuale e di quello che scegli. Io scelgo vincere: non ho mai visto durante la mia carriera qualcuno contento dopo una sconfitta. Quello che conta a livello mentale e di autostima è vincere".

Cristian Chivu è anche laureato in scienze motorie.

"Nella vita si può fare di tutto. È quello che cerco di trasmettere ai ragazzi. A 17 anni ho rifiutato la possibilità di andare all'estero per finire la scuola, ero all'ultimo anno del liceo, è un valore che la mia famiglia mi ha trasmesso: voti buoni a scuola, potevo andare a giocare a calcio, se non avevo voti buoni non potevo andare, e nonostante questo dividevo le mie ore. Dalle 8 alle 10 andavo a scuola, facevo allenamento alle 11, appena finivo facevo la doccia e tornavo a scuola. Si può fare, non esistono alibi: bisogna farlo".

- Parte un video messaggio: a parlare è Marco Materazzi -

"Materazzi e Stankovic sono quelli con cui ho legato molto all'Inter. Tutt'ora siamo in contatto, siamo i fratelli zingari. È una persona eccezionale, abbiamo il rammarico di aver giocato poco insieme da difensori centrali, c'era il tabù che 2 mancini non potessero giocare insieme, ma si può fare! Ci siamo divertiti un sacco in allenamento, gli allenatori avevano capito che avevamo la voglia di non perdere e ci mettevano sempre contro! Ho avuto la fortuna di conoscere persone vere nel mio percorso da calciatore, c'è un'amicizia che ci lega, siamo fratelli e amici".

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Mister si nasce o si diventa?

"Si diventa, con passione, con la dedizione, con lo studio, con il tempo, con la voglia di credere che una volta usciti dalla zona comfort, inizia il percorso, la vita. Nasci come leader, ma anche lì ti costruisci. Quello che viene prima è la persona, il lato umano: uno può essere bravo in qualcosa, ma se non hai questo lato umano diventa tutto molto superficiale. È un misto di tutto, ci vogliono tanti attributi, non c'è una ricetta ben precisa, devi avere anche un po' di fortuna. Devi credere in quello che fai portando avanti le tue idee e capire al volo se c'è qualcosa da cambiare".

L'analisi tattica.

"A me piace il giocatore pensante, quello che si riesce a riconoscere durante una partita. A me non piacciono le cose codificate, le odio: sono cresciuto in una società, l'Ajax, in cui la tecnica di base e il passaggio sono le cose fondamentali. Ci vuole poi intelligenza e velocità del pensiero, senza non sei in grado di giocare a pallone, l'occupazione del campo. Modulo preferito? Non ne ho, mi adatto a ciò che ho in mano. Cerco di capire cosa ho a disposizione e provo a non metterli in difficoltà. Bisogna far credere nell'autostima: è importante il percorso per arrivare all'obiettivo, mai accontentarsi e cercare di mettersi alla prova".

In campo Stankovic e in campo Esposito: come li metti?

"Ho avuto la fortuna di avere loro 2, ho cambiato anche i capitani quest'anno. Avevo bisogno di due uomini, di due persone vere, con l'aiuto degli altri, per creare una simbiosi che ci vuole per avere un gruppo. Zanotti e Fontanarosa non li avevo mai, sono sempre in Prima Squadra. Uno fa il play, l'altro è la colonna portante della squadra. Sono due 2005 che iniziano a fare la differenza in Primavera: bisogna avere pazienza, sono due ragazzi eccezionali che provengono da famiglie di calciatori ed allenatori. Per loro secondo me è meglio, quelli piccoli sanno sgomitare e questi 2 sgomitano".

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