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"Per mio padre, nel pieno della maturità calcistica, quell'annata fu benedetta. Una delle intuizioni di Herrera, infatti, fu Facchetti terzino sinistro con licenza di fare gol e che, in quell'anno, ne segnò ben 10, numero perfetto. A tre giornate dalla fine, una doppietta realizzata contro la Juventus spianò la strada verso il decimo scudetto. Per un soffio, pochi giorni prima, alla squadra non era riuscita anche una nuova impresa contro il Real Madrid in Coppa dei Campioni. Sfumata la cometa europea, l’Inter si ricamava una stella d'Oro su una maglia che conservo ancora. A occhi chiusi saprei de-scriverne bene stoffa, peso e profumo; ai polpastrelli basta scivolare sull'astro cucito a mano per avere un sussulto. I fili sottili intrecciati sfregano sulla pelle come in balia di movimenti impercettibili e tutto torna in gioco, passato e presente, come con una diapositiva o un vecchio filmino, tra realtà e sogno. A proposito di chimere, ho scolpita nella mente una foto che ritrae Armando Picchi, capitano della «Grande Inter» uscire dal campo usando la Coppa Intercontinentale come scudo, per difendersi dalle sassate lanciate dai tifosi avversari inferociti. Non ho mai scoperto se si trattasse dell’edizione del ’64 o quella del ’65, cambia poco, alla memoria può bastare così. Forse da quel cielo di Argentina non piovevano sassi ma polvere di stelle, briciole di gloria. Quella che il calcio regala a chi la sa raccogliere, da sempre, seppiata o a colori non fa differenza. È la vita, con quelle due tre cose che contano per davvero: la legge morale in me, il cielo stellato sopra di me e in mezzo l’Inter"
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