Luciano Spalletti non nasconde la delusione mista a risentimento per la decisione della dirigenza dell'Inter. "Era stata l'Inter a mandarmi via, potevo andarmene al "nemico" con la coscienza a posto e il cuore leggero, forse anche con un piccolo, comprensibile sentimento di rivincita. Ma la mia testa non funziona così. Non me la sentivo di ferire chi mi aveva sempre rispettato, in molti casi amato: i tifosi nerazzurri. Ammetto, odio l'ipocrisia, non avevo metabolizzato quello che io consideravo un torto che non meritavo. In qualche angolo della mia anima ferita c'era una resistenza ad accettare l'idea che qualcuno all'Inter potesse brindare per essersi liberato del contratto di Spalletti. Un peccato di orgoglio? Chiamatelo così. Ero stato bocciato - se non messo in croce - perché nell'ultima stagione ero uscito dalla Champions in un girone con Tottenham e Barcellona, e perché mi ero assunto la responsabilità di fare le mie scelte a difesa di un gruppo che si stava sfaldando", spiega Spalletti analizzando il momento difficile che l'addio all'Inter ha rappresentato per lui.
"Qualcuno può pensare che non sarebbe stato gratificante per me unirmi a quel Milan di Boban, Maldini e Massara? Il Milan mi voleva, l'Inter non mi voleva più. Da un lato sarebbe stata contenta di liberarsi di un ingaggio importante, allo stesso tempo temeva, immagino, che potessi fare bene sulla panchina rossonera. No, non potevo fare la guerra al popolo interista e non potevo nemmeno fare la guerra a me stesso. Mi conosco. Accettare il Milan in quel momento non me lo sarei perdonato. Così me ne restai a Montaione, dove mi ero rintanato dopo l'avventura con l'Inter: tornai ai miei campi, a fare la mia vendemmia, a stappare il mio vino. Bordocampo, Contrasto, Rossodiretto, Rabona e Tra le Linee. I sessant'anni conferiscono una certa saggezza. E pazienza se qualcuno la chiama in un altro modo", conclude Luciano Spalletti nel suo libro.
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