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Inter, Zanetti: “Triplete indimenticabile, vi dico tutto. Mou? All’intervallo al Camp Nou ci disse…”

Le parole del vicepresidente nerazzurro

Marco Astori

Lunga intervista concessa da Javier Zanetti, vicepresidente dell'Inter, ai microfoni di SportWeek, magazine de La Gazzetta dello Sport. Il tema principale affrontato da Pupi è stato ovviamente il 2010, l'anno del Triplete, cominciando dalla prima telefonata con Jose Mourinho: «Ero a Fiumicino, stavo per imbarcami per l’Argentina con mia moglie Paula. Squilla il telefono, vedo un numero portoghese. “Boh”, penso. Rispondo. Ascolto una voce, in italiano: “Sono José Mourinho, ho appena firmato per l’Inter, scusami se non parlo benissimo, sei la prima persona che chiamo. Conto su di te, sarai il mio capitano”. Finisce la chiamata, guardo mia moglie e le dico: “Paula, è successa una cosa incredibile”».

E lei?

«Era senza parole. Come me».

Dieci, cento o mille foto di quella stagione. Compito difficile, ne scelga solamente una.

«Facile: quando entriamo in campo al Bernabeu per fare riscaldamento, l’immagine dei nostri tifosi, la spinta perfetta per coronare il sogno. Non posso dimenticare».

E pensare che quella stagione non era partita bene.

«Con la Lazio, in Supercoppa, giocammo una gran partita, non avremmo meritato la sconfitta».

No, il riferimento è alle polemiche dell’estate 2009, con l’addio di Ibrahimovic.

«Eravamo a Los Angeles, dopo l’amichevole col Chelsea arrivò la notizia. Se ne parlava, non fu un fulmine a ciel sereno. E comunque, per uno che andava via, da noi stava sbarcando Eto’o. Insomma, la squadra non era mica depressa».

Si è raccontato molto della “distanza” tra Ibra e una parte di quel gruppo, specie con voi argentini.

«A me non risulta. Fu una sua scelta, andare al Barcellona, non ci fu molto altro dietro. Noi con Ibrahimovic avevamo vinto negli anni precedenti».

Cosa vi disse Mourinho, quell’estate?

«In ritiro ci spiegò il progetto: “Abbiamo trionfato in Italia. Ora dobbiamo fare qualcosa in più. Che dite se proviamo a fare la storia di questo club?”».

Quando apriva bocca, Mou sapeva essere convincente. Come vivevate voi giocatori i suoi show in conferenza stampa?

«Dava il meglio di sé, tutta la sua personalità emergeva. Parlava chiaro, nello spogliatoio e fuori. A noi non restava che dargli ragione in partita».

Leggi l’undici dei sogni di Mourinho e c’è Zanetti, terzino destro.

«Merito suo... Per me è un orgoglio. Con lui sono migliorato».

Migliorato a 35 anni...

«Non ho mai avuto tanta fiducia in me stesso come con lui allenatore. Ho capito presto che, se avesse avuto bisogno, mi avrebbe schierato in qualsiasi ruolo. Mi creda: questa cosa qui per un calciatore è il massimo».

Ma è vero che in quell’Inter, se un calciatore aveva un problema da risolvere, era assai più semplice rivolgersi a Moratti piuttosto che a Mourinho?

«Mah... vuole la verità? Non andavamo né dall’uno né dall’altro. In quella squadra io ero il capitano, ma altri avevano già rivestito lo stesso ruolo nei club o in nazionale. Insomma: i guai ce li vedevamo e risolvevamo tra di noi. Anche litigando».

A proposito: com’è la storia della lite prima di Barcellona-Inter nello spogliatoio?

«Perché mi chiede di quella discussione e non di un’altra? In quella stagione litigammo tra di noi mille volte, c’erano personalità fortissime. Magari era solo un modo di scaricare la tensione...».

Una partita simbolo per ciascuna delle tre competizioni vinte.

«In Champions a Kiev eravamo fuori, all’intervallo Mourinho ci disse: “Ragazzi, o restiamo così e usciamo, oppure rischiamo”. Rischiammo e vincemmo. Ma se devo indicare una partita, dico la gara col Chelsea a Londra. Il sabato precedente avevamo perso a Catania, c’erano mille polemiche...».

Polemiche è dire poco: addirittura la panchina di Mourinho non pareva più così salda, anche se raccontarlo oggi sembra un assurdo.

«Ok: ci può essere risposta migliore di quella che la squadra diede a Londra? No. Il blocco era unico».

Si dice: il passaggio al 4-2-3-1, nella notte di Londra, fu l’apriscatole tattico per conquistare il Triplete.

«Fu una svolta importante, sicuro. Ma, con i giocatori che c’erano, oggi posso dire che avremmo vinto comunque, con qualsiasi modulo».

Torniamo a bomba. Coppa Italia?

«Semifinale di ritorno a Firenze. Quattro giorni prima avevamo giocato sullo stesso campo: pareggio in campionato, la Roma ci aveva sorpassato in testa alla classifica. Vincemmo noi, gol di Eto’o, andammo in finale: fu un segnale, l’ennesimo».

In campionato?

«Come simbolo direi Inter-Juve: la prima partita da secondi in classifica. In teoria avremmo potuto mollare di testa, invece neppure per idea».

Pare di sentire Mourinho...

«È proprio quello che ci aveva inculcato nella testa lui. Aveva un potere magico, differente da qualsiasi altro tecnico: davanti a lui, ti convincevi che avresti potuto sfidare il mondo. E che per lui l’avresti fatto. José ti entra dentro, non ti molla più. Lo faceva con tutti, prima di ogni singola partita, che si trattasse di Milito o Mariga era lo stesso. In allenamento si respirava un’aria particolare, tutti volevano rendersi disponibili, tutti andavano a mille. Paura di farsi male e saltare il finale di stagione? Mah, io e Samuel abbiamo fatto mezza Champions da diffidati, pensi cosa mi sarei perso se avessi preso un giallo a Barcellona...».

Racconti la visita al presidente, in quel periodo, per discutere i premi vittoria.

«Andai io, da capitano, dopo aver parlato con i miei compa- gni. Finii in ufficio dal presidente quasi per “dovere”, per noi in quel momento quel che contava era la voglia di gloria. Ma tanto poi, si sa, con Moratti non c’era problema. E infatti accadeva sempre che ci mettevamo a parlare di calcio...».

Calcio... ok. Ma quanto c’è stato davvero di calcio, in quella partita a Barcellona?

«Il piano partita saltò dopo il rosso di Motta. Fu resistenza allo stato puro. All’intervallo Mourinho quasi non parlò. Ci disse solo: “Ragazzi, a rischiare qui sono solo loro”».

Ha dormito, la notte prima di Madrid?

«Non ho mai sofferto una vigilia di un match in vita mia, ho sempre riposato alla grande. Ma quella notte non la dimentico: ero in camera con Cordoba, siamo entrambi devoti a Santa Rita, che si festeggia il 22 maggio. Aspettammo mezzanotte, ci guardammo, accendemmo insieme una candela e ci mettemmo a pregare. Meno male che non prese fuoco l’hotel!».

Il giorno della finale, riunione tecnica: cosa può dire un allenatore, prima di una gara simile?

«Mourinho ci ricordò il progetto iniziale. E ci disse che eravamo a un passo dal fare la storia. Fu un discorso emozionante. Fu così convincente, Mou, che entrammo in campo con una concentrazione pazzesca. Me ne accorgo quando rivedo la foto in cui alzo la Coppa».

Cioè?

«Quello non sono io. Quello non è Zanetti, non è la mia faccia, quel viso va al di là della felicità. Era una vita che mi passava davanti, in pochi istanti ripensai a tutto, a me bambino in Argentina. Quella sera, proprio quella sera, facevo 700 partite con l’Inter. In una finale di Champions, al Bernabeu: insomma, tutto scritto, tutto perfetto».

Cosa sapevate dell’addio di Mourinho?

«Avevo intuito qualcosa, come me pure molti miei compagni. Ma c’era pudore ad affrontare l’argomento. Anzi, paura più che pudore. Paura che questa cosa potesse farci male, potesse privarci del sogno per cui stavamo lottando. Ricordo che dopo la partita, in campo, io e Mou ci abbracciammo forte. E ci dicemmo solo una parola, la stessa: “Grazie”».

A notte fonda un San Siro pieno ad accogliervi.

«Ero in diretta a Sky, mi intervistavano dopo la partita. Facevano vedere le immagini del Duomo, mi pareva incredibile tutta quella gente, mi veniva da piangere. Arrivammo all’aeroporto di Malpensa, c’erano tifosi anche lì. A un certo punto ci dissero: “Oh ragazzi, andiamo a San Siro, vi stanno aspettando”. Pensavo fosse uno scherzo, invece fu impressionante».

Un oggetto che conserva con gelosia, di quella notte.

«La maglia, non l’ho data a nessuno. E la fascia, con la scritta delle 700 partite».

Lei oggi è vicepresidente dell’Inter. Da dirigente, non pensa che sarebbe stato giusto cambiare di più quella squa- dra, l’estate successiva, per continuare a vincere?

«Era troppo difficile farlo, in quel momento, complicato modificare quel gruppo. E comunque la stagione dopo, nonostante un cambio di allenatore, arrivammo secondi in campionato e vincemmo la Coppa Italia. Quell’Inter aveva ancora fame. Solo successivamente il calo fu fisiologico».

In definitiva: più bello allora in campo oppure oggi sul divano, rileggendo il romanzo a dieci anni di distanza?

«Allora fu l’esplosione. Oggi è felicità pura. Ogni tanto mi fermo e mi metto a pensare, mi rendo conto con il passare del tempo della grandezza delle nostre imprese. In questi giorni ho rivisto mille volte le partite di quella stagione con i miei figli... Wow, cosa abbiamo combinato!».

 

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