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Piacentini: “Ho incontrato Marotta e Oaktree, Inter in mano a gente preparata e con idee chiare”
Diego Piacentini, milanese di Lambrate, noto manager tech, assieme alla moglie Monica accoglie i commensali con l’inno dell’Inter. Storico collaboratore di Jeff Bezos sin dai primissimi anni di Amazon, poi per due anni a Palazzo Chigi come commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda digitale, Piacentini siede ora in diversi board e lavora da advisor: da quando si è trasferito qui nel 2000, è tra gli italiani più conosciuti nella zona di Seattle ma, tra mille impegni, c’è una cosa per cui ha sempre tempo. Si chiama Inter. Queste le sue parole a La Gazzetta dello Sport:
Piacentini, che cosa è l’Fc Internazionale vista da qua?
«È famiglia, qualcosa che appartiene a me, a Monica, ai nostri figli ancora prima di nascere. Pensate che mio padre era a San Siro per la finale di Coppa Campioni col Benfica del 1965, mentre io la prima partita allo stadio l’ho vista nei primi Anni 70 contro la Fiorentina: ricordo l’ombrello nei popolari allo scoperto. Oggi attraverso l’Oceano pur di vederla…».
Quali viaggi nerazzurri le sono rimasti più nel cuore?
«Le tre finali di Champions dal 2010 a oggi. Più la prima, che le altre due… Prima di Madrid ero imbarazzato nel dire a mia moglie che forse non ce l’avrei fatta, ma lei mi ha convinto così: “Tu lavora, tranquillo, io vado per i fatti miei con i ragazzi…”. Ovviamente ho risolto gli impegni. Mio figlio doveva partecipare al famoso ballo del liceo, il “prom” che si vede nei film, un momento importantissimo, ma alla fidanzatina ha detto: “Ciao, ciao, io vado a vedermi l’Inter…”. Ha perso una ragazza, ma ha guadagnato una Champions. La finale di Monaco per me non si è mai giocata, meglio ricordare la semifinale con il gol incredibile di Acerbi: io l’ho vista qui a Seattle, mia moglie era invece a San Siro. Per la tensione ha avuto dolore ai muscoli per quattro giorni».
Ora l’Inter è venuta a giocare il Mondiale fino a casa sua.
«Ho incontrato il presidente Marotta e Oaktree: la nostra squadra è in mano a gente preparata e con idee chiare. Il mio primo contatto con la società Inter risale, invece, al 1999, era il secondo anno del Fenomeno e io ero a capo di Apple Europa. Quella volta mi chiamò Milly Moratti perché voleva sostituire i loro computer in sede con dei Macintosh e non sapeva che fossi interista, così tanto interista».
Per chiudere, qual è per lei il volto dell’Inter di ieri e in quella di oggi?
«Nel Natale del 2019 ci scambiavamo delle maglie come regalo e mio figlio pensava di essere stato sfortunato a non aver beccato Lukaku, ma Barella. Oggi possiamo dire che non poteva andargli meglio. In passato ho amato l’eleganza di Djorkaeff e prima ancora Rummenigge, che forza della natura».
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