«Ma io ci ho sperato fino all’ultimo, lo ammetto! Sono stati fatti non degli errori e, alla fine, ho sentito diversi amici tifosi napoletani, come Silvio Orlando, dirmi: “Ce ne avete fatti di regali...”. A prescindere dal campionato e comunque vada sabato, io mi sento di dire grazie a tutta l’Inter: mi sono sentito vivo, divertito nel vedere una squadra europea, moderna. Molto del merito va a Simone Inzaghi, che è riuscito a fare quello che cerco anche io durante le riprese di un film: creare una squadra di lavoro che si voglia bene. Inzaghi è un grande regista perché sa quanto conti sentirsi parte di un gruppo, che prima ti sostiene e poi ti restituisce qualcosa. E qui il resto lo fa la proprietà».
Soddisfatto del cambio Suning-Oaktree?
«Più delle dinamiche tecniche, penso che il presidente Marotta sia stato decisivo: anche lui contribuisce a questo senso di comunità, ha gestito 4 anni difficili in cui abbiamo dovuto cedere, tra gli altri, il nostro “Marrakech Express” più altri grandi giocatori. Senza spendere, adesso sfidiamo alla pari un ricchissimo Psg: questo ci inorgoglisce a prescindere da come finirà. È un qualcosa di storico. E poi a me piace davvero una squadra formata da gente che pensa e non solo che gioca. La ringrazierei anche se finisse con “zero tituli”, come diceva qualcuno. Anche se un po’ mi tocco...».
Cosa custodirà di questa stagione?
«La partita col Barcellona al ritorno. Anche nella sofferenza abbiamo mantenuto un tratto tutto nostro. Ero allo stadio e credo di aver visto la più bella partita della vita: non sono un tifoso accanito, di solito non rischio infarti, ma quella volta sì... E poi il movimento di Acerbi verso l’area, quella corsa senza un apparente perché: era epica, c’era una forza misteriosa che lo guidava. Non farò mai un film sul calcio, anche perché una scena in campo non verrebbe mai così bene. In generale, tutta la stagione ha esplorato le pieghe della mente dell’Inter: tra alti e bassi, è stato un thriller psicologico. Un’annata così fa capire per davvero cosa significhi essere interisti».
E cosa significa esattamente?
«Nessuno me lo toglie dalla testa, da bambino scegli sempre una squadra che in qualche modo ti assomiglia. E l’Inter mi assomiglia tantissimo: per chi crede all’astrologia, io sono leone ascendente cancro, cioè condenso gli opposti. Il sole e la luna, il maschile e il femminile, la tendenza a essere leader e quella a nascondermi in un buco. Non è facile da gestire nella vita, ma anche nello sport. Il nostro è un club capace di avere momenti sublimi e alti, uniti a dei bassi profondi. Anche quelli in campionato, ad esempio il pari col Parma, non sono solo figli di una normale rilassatezza: è come se a un certo punto intervenga la natura della squadra, che finisce per chiudersi in sé, nella propria imperfezione».
Le sette finali nerazzurre di Champions rappresentano anche cicli diversi della sua vita: a cosa lega quelle giocate dalla Grande Inter?
«Erano gli anni Sessanta, ricordo l’infanzia, l’emozione delle prime volte. Corso e Mazzola come eroi di un ragazzino. Appena arrivato in città, mi sono trovato una squadra capace di dominare il mondo. La Grande Inter era un tumulto, un’avventura. A ripensarci, mi accorgo quanto il calcio sia una regressione infantile: la gioia che prova un bambino me l’ha data anche questa stagione con i suoi improvvisi rovesci».
Cosa le resta dentro della finale del Triplete?
« La squadra di Mou è stata più come una folgorazione momentanea: il simbolo è Eto’o, generoso come nessun altro. Queste due finali di Inzaghi, rispetto a quella del 2010, sono state più umili, quasi umane, Sono le finali di Lautaro, che gioca sempre per gli altri e non solo per sé, e dei vecchietti Micki e Acerbi, pronti a dare l’anima. A parte il capitano e forse Thuram, ora non ci sono stelle mondiali, ma solo una grande armonia. Rispetto all’ultima col City, questa sfida è più aperta: non serve un’impresa, ma una vera Inter».
Alla fine, lei a Monaco andrà?
«Il mio prossimo film è una produzione italo-tedesca e si gira in parte a... Monaco di Baviera. Ma, un po’ per scaramanzia, alle finali non assisto mai dal vivo e non cambierò stavolta. Però, non la vedrò di certo con amici milanisti come Diego Abatantuono. Con lui è una sofferenza, quando segnano gli altri ti guarda in silenzio come per dire: “Mi dispiace”. Gli voglio bene, ma in quel momento lo strozzerei».
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