Se la dimensione di partenza dell’Atalanta agevola l’enfasi, la stessa dimensione capovolge le aspettative e grava sull’Inter. Magari non è sbagliato, ma non è proprio giusto. Disconosce che la forza - oggi - dell’Inter è fatta di competenza, idee e lavoro.
Di scelte pensose e vincolate, della capacità di migliorare i giocatori anche in fondo alla loro carriera. Di un azzardo così significativo che merita la rievocazione profetica: quando si scelse di superare la regia di Brozovic con Calhanoglu. E Barella e Mkhitaryan mezzali. Tre giocatori eruditi per sostenere il reparto in ogni fase ma cresciuti da trequartisti, dunque tecnici, intuitivi, di pensiero rapido e difficile, portati a far avanzare il palleggio, a insinuarlo nelle linee nascoste, a “vedere” il gioco (e a “leggere” le giocate avversarie quando c’è da recuperare: anche per questo molti numeri 10 si accasano davanti alla difesa). La palla si muove veloce, sicura, va dove c’è il gioco e non i giocatori che arriveranno, chiunque e dappertutto: l’Inter muove ogni giocatore fino in fondo al campo. Con le volate dei difensori assecondati dal calcio limpido di Dimarco. Il gioco sgorga da ogni zona e sempre per concorrenza e solidarietà: nell’Inter nessuno può fare niente da solo. Il presentimento originario del gioco è diventato un senso di squadra. Davvero il pensiero di Inzaghi (e il lavoro) meriterebbe cantori con meno pudori.
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