La stagione si definisce stasera, e una squadra così esperta, rodata al punto da fornire ad alcuni componenti una chance estrema e non ripetibile — la famosa «last dance» — difficilmente sbaglierà partita. Cinque anni di differenza nell’età media (24.3 i parigini, 29.1 i milanesi) disegnano un confronto molto netto. Il punto di contatto fra Inzaghi e Luis Enrique è l’ambizione di costruire una squadra, tema quasi inedito al Psg che per anni ha seguito una filosofia da Harlem Globetrotter (da Messi a Neymar, da Ibra a Mbappé, le figurine collezionate in dieci anni sono state inferiori solo alle figuracce rimediate), e adesso invece è un blocco che si muove coerente. Poi il denaro speso in quantità enorme ha portato a Parigi quasi tutto il meglio del talento fresco, mentre l’autofinanziamento felice dell’Inter è raccontato da svincolati rivitalizzati in nuovi ruoli (Calhanoglu), da crescite esagerate (Dumfries), da appuntamenti col destino (Acerbi). E dunque la finale è un match tra chi ha seminato e chi deve raccogliere, e certo non è detto che chi ha maggiore prospettiva sia meno determinato di chi volteggia senza rete. La scacchiera di Monaco presenta intrecci tattici in quantità. Ma c’è qualcosa che sorvola i singoli duelli, ed è il senso delle finali, la reattività nel momento di massima crisi. Il Psg è stato grande a fine girone col City, quando si trovò sotto 2-0 e vinse 4-2. L’Inter, beh… chiedete quanto si è pentito a chi lasciò San Siro dopo il gol di Raphinha.
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