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L’Inter è saltata subito addosso al Lecce, l’ha chiusa in area fino al primo gol di Lautaro e ha tirato dritto fino alla fine, segnandone altri 3, senza fermarsi a speculare. Abituarsi a giocare e ad attaccare anche quando non ne hai bisogno, trasformarlo cioè in un atteggiamento naturale, rende più semplice imporselo quando i gol ti servono. La Juve di Allegri non ha imparato questa abitudine, come dimostra una terza classifica virtuosa che la vede in affanno: quella dei tocchi nell’ultimo terzo di campo, dove si scrive la storia del match. Un calcio del genere, senza possesso, senza aggressione, senza spirito offensivo, in Europa non lo gioca quasi più nessuno. È un vinile tra i cd. Gol episodici, spesso da fermo, come quello di Rugani che domenica ha fruttato 3 punti, hanno mascherato la classifica della Juve, ma, alla lunga, la differenza di gioco ha scavato il baratro di 12 punti virtuali. Gioco, non giocatori, perché sul piano della qualità individuale Max ha poco da invidiare a Inzaghi.
E se alcune pedine oggi appaiono superiori, come Calha, Dimarco, Mkhitaryan..., lo devono proprio al gioco e alle conoscenze che li hanno fatti lievitare. Come non accade alla Juve. Yildiz è calato dopo l’esordio abbagliante, Chiesa non è mai stato il vero Chiesa, Vlahovic mai ad altezza Fiorentina, Locatelli, Miretti e Iling-Junior non sono cresciuti.
Inzaghi a Lecce ha cambiato metà squadra rispetto alla vittoria sull’Atletico Madrid. Non se n’è accorto nessuno. L’imbucata di Asslani, in crescita costante dopo un anno di studio, per il primo gol di Lautaro, era degna di Cahla. Nell’azione del raddoppio, box to box, che abbiamo raccontato, sono entrati Audero, Bisseck, Sanchez, Frattesi..., tutte alternative ai titolari. Quando Pioli ha provato a cambiare più di metà squadra a Monza, una settimana prima, ci ha lasciato 3 punti. Ricomposto il vero Diavolo contro l’Atalanta, ha ottenuto un partitone.
La lunghezza e la qualità della panchina hanno scavato gran parte del divario tra le due milanesi. Al di là degli infortuni, a Pioli sono mancati il difensore centrale di piena affidabilità e un’alternativa a Theo Hernandez, che in estate erano parse necessità imprescindibili. Molte delle nuove proposte non hanno ancora risposto alle attese: Chukwueze, Okafor... Anche chi ha fatto meglio (Reijnders, Loftus-Cheek) non ha raggiunto l’incidenza di un Thuram. La distanza tra titolari e alternative del Milan è superiore a quella dell’Inter. I quattro esterni nerazzurri, per esempio, si equivalgono. Quando scatta la staffetta in fascia, la squadra di Simone riceve una frustata di energia che Pioli non può permettersi. Il Milan un gioco ce l’ha, anche evoluto, bello, come dimostrato con l’Atalanta. Un gioco fatto di funzioni mobili, più liquido e imprevedibile di quello dell’Inter, ma anche più difficile da interpretare, specie dalle riserve, perché meno codificato. Domenica abbiamo capito un po’ meglio perché la capolista ha fatto il vuoto alle sue spalle.
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