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Vecchioni: “Non mi aspettavo di vincere nel derby, mi sembrava troppo. Ora Champions e Mondiale”

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Intervistato da La Gazzetta dello Sport, il cantante grande tifoso dell’Inter ha parlato della vittoria dello scudetto
Andrea Della Sala Redattore 

Intervistato da La Gazzetta dello Sport, il cantante grande tifoso dell’Inter Roberto Vecchioni ha parlato della vittoria dello scudetto

Vecchioni, cantautore e soprattutto interista: come si sta sotto a una stella?

«Lo ammetto, non pensavo di vincere con il Milan, mi sembrava quasi... troppo, e invece per fortuna ho sbagliato previsione. Un tifoso è tale per due caratteristiche che sposo in pieno: gode nell’arrivare primo e gode nel vedere gli altri che lo guardano dal basso. Per questo è un immenso piacere, di quelli che ci regala solo l’Inter. Ma la mia squadra è sempre stellare, celeste, anche quando perde».


Che ricordo conserva della prima stella?

«Amavo quella squadra, il centravanti era avvolto dalla bellezza dei Suarez e dei Mazzola. Ma io adoravo Corso, mio amico fino all’ultimo giorno. Si allenavano il mercoledì all’Arena e andavo a vederlo: non faceva niente, stava fermo, ma poi toccava la palla ed era un diluvio, una meraviglia di suoni. Il calcio è proprio questo, armonia e musica: nel gioco riconosci i flauti e la batteria, un’azione è rock e un’altra slow. Ma anche i silenzi hanno un valore, come quando oggi i ragazzi si passano la palla in attesa dell’acuto...».

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E chi dà l’acuto adesso?

«Lo senti quando va via Dimarco, uno che morirebbe per la sua Inter: lui inventa gli acuti, trasmette la perfezione del colpo finale perché non sbaglia mai un cross. La metrica, però, la decide sempre l’allenatore e il nostro, Inzaghi, conosce ciò che i greci chiamavano “kairos”: è il momento giusto, supremo, opportuno, quello che sanno cogliere solo gli uomini illuminati come Ulisse. Anche Simone riconosce l’attimo esatto in cui agire. È l’unico nostro tecnico che non ho conosciuto, ma apprezzo la sua coerenza oltre che il calcio: non le spara mai grosse, in questo non è bauscia come noi interisti. Noi, che quando parliamo del nostro amore, abbiamo quasi la bava alla bocca».

Quale delle sue canzoni dedicherebbe a Inzaghi?

«Simone non è Che Guevara, non è impeto e rivoluzione, ma è un corteggiatore molto signorile, uno che non pressa l’oggetto del suo amore, ovvero l’Inter, ma lo circonda di attenzioni discrete. Penso a “Vorrei essere tua madre”, non una tra le mie canzoni più famose: racconta di amore puro e del sapere sentire i bisogni di chi abbiamo attorno».

Anche Lautaro, da capitano, capisce i bisogni della squadra.

«Lui, sì, è un guerriero combattente, si butta nel fuoco per salvare l’Inter anche quando non può. È il ”Bandolero stanco”, con quell’ombra malinconica e latina: non ride mai quando lo intervistano, si vede che per lui partita e vita si sovrappongono. Ci rivedo anche “Velasquez”, protagonista di un’altra canzone, che non si arrende inseguendo una idea. La sua idea, la nostra stella, l’ha raggiunta...».

Ritorni in cattedra un attimo: chi spicca nella classe Inter?

«Il capoclasse che prende in mano i compagni è Calhanoglu, l’unico forse che non conosce pausa. E poi non sbaglia mai i rigori: ma come fa? A parte quella storiaccia del razzismo, mi è piaciuta la difesa di Acerbi, pronto a sbattersi come un matto».

Se da Samarcanda va ancora più a est si arriva in Cina: contento del presidente Zhang?

«Stiamo ottenendo grandi risultati, gli siamo grati. Poi tutti sanno che io e altri nerazzurri più o meno noti sognavamo una nuova Inter italiana. Nulla contro la Cina, attenzione, ma resto un romantico del Novecento, forse dell’Ottocento, e mi illudo che le squadre appartengano ancora ai tifosi. Il vero nostro possesso spirituale, animale, emozionale è nella maglia: quella nerazzurra è il nostro specchio, chi se ne frega cosa ci sia dentro o chi sia il proprietario».

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La terza stella verrà forse festeggiata in un nuovo stadio: un giorno si potrebbe cantare... “Luci a Rozzano”?

«Non avrebbe lo stesso effetto. Vorrei incatenarmi davanti a San Siro, ma poi mi ricordo che ho 80 anni. Dentro al nostro stadio chissà quanti spiriti si agitano e urlano: buttando giù i muri, cancelleremmo anche loro. Se dovessimo mai cambiare casa, scriverei una nuova canzone di fuoco per oppormi. Anche se non servirebbe a niente, questo lo so».

A Sanremo è appena tornato a cantare la sua “Sogna, ragazzo sogna”. Cosa sogna ora l’interista Vecchioni?

«La Champions: con l’Atletico l’abbiamo persa all’andata. E poi il nuovo Mondiale per club. Che bello sarebbe tornare a dirsi campioni d’Europa e, magari, pure campioni del mondo».

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