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Bergomi: “Un capitano deve dare l’esempio in tutto. Il momento più bello…”

Dalle pagine di Famiglia Cristiana l'ex nerazzurro racconta alcune fasi della sua carriera

Francesco Parrone

Intervistato da Famiglia Cristiana, l'ex difensore e capitano dell'Inter Beppe Bergomi ha parlato della sua carriera da calciatore:

In campo la chiamavano “zio” per il senso di fiducia e responsabilità che, seppur giovane, emanava...

"È stato Giampiero Marini (collega all’Inter e in Nazionale, ndr) ad affibbiarmi il soprannome. A essere sincero, però, non ero così sicuro di me stesso: mascheravo dietro i baffi e l’aria seria, ma anche io, come tutti i ragazzi a quell’età, avevo le mie paure e le mie incertezze".

A 18 anni è diventato campione del mondo. Come ha fatto a tenere i piedi per terra?

"Sono andato avanti con serietà. Per fare il calciatore bisogna mettere in conto tanta fatica ed è importante saper dare il proprio contributo al gruppo. Alcuni miei compagni di squadra mi hanno anche fornito un grande sostegno nella vita. Oggi i ragazzi cercano eroi nel calcio, ma non credo ci sia bisogno di idoli quanto di testimoni. La vita non è semplice nemmeno per i calciatori. Come atleti bisogna sempre mettersi in discussione, la carriera non è lunghissima e si passa velocemente da momenti di gloria ad altri in cui tutto e tutti ti danno addosso".

Lei è stato capitano dell’Inter e della Nazionale. Si sentiva a suo agio nei panni del leader?

"A dire la verità sono una persona timida e introversa. Però ho sempre pensato che per essere capitano bisognasse dare l’esempio: arrivare per primi e andare via per ultimi, essere in testa al gruppo durante ogni allenamento, prendersi la responsabilità di parlare con il mister e la dirigenza per portare avanti la tutela di tutti. Ho cercato di comportarmi sempre così".

Che tipo di giocatore è stato? 

"Sono stato un buon difensore. A gennaio sono stato scelto per la Hall of fame del calcio italiano (il riconoscimento della Federazione italiana giuoco calcio che celebra le figure più significative di questo sport, ndr). Se penso che sono partito dall’oratorio di Settala e non avevo nemmeno doti tecniche importanti... Ce l’ho fatta perché ho “giocato di testa” anche nei momenti di difficoltà".

Qual è stato il momento più bello della sua carriera? 

"Non posso dimenticare il Mondiale in Francia nel 1998. Convocato a 35 anni, dopo esser stato lontano dalla Nazionale per sette anni, è stato un grande riscatto". 

Per tante stagioni ha poi allenato i giovani. Una bella sfida ai giorni d’oggi...

"Quando si allenano i piccoli bisogna mettere da parte l’orgoglio personale e pensare alla crescita e al bene dei ragazzi. Come Mister ho cercato di trasmettere ai miei giocatori quanto appreso sul campo e ai corsi per allenatore. Dicevo loro di  divertirsi e tirare fuori il meglio di sé. In serie A o con i dilettanti, bisogna sempre avere voglia di crescere e migliorarsi, tenendo stretti i propri sogni. Puntavo molto anche sul rispetto: viviamo in un tempo in cui c’è tanta arroganza e violenza nel linguaggio, soprattutto sui social network, ma nessuno merita di essere insultato".

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