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Bergomi su Brehme: “Unico in campo ma anche come amico. Ricordo ancora quando…”

Bergomi su Brehme: “Unico in campo ma anche come amico. Ricordo ancora quando…” - immagine 1
Il ricordo di Beppe Bergomi per Brehme, scomparso ieri all'età di 63 anni: "Portò tutto con gioia, un grande amico"
Matteo Pifferi Redattore 

Beppe Bergomi, intervistato da La Gazzetta dello Sport, ha voluto ricordare così Andreas Brehme, scomparso tragicamente ieri a 63 anni per un infarto:

«Andy è il primo che viene a mancare di quella squadra e stamattina pensavo: sarà più difficile adesso ripetere quel ritornello ”Zenga, Bergomi, Brehme...?”. Poi mi sono detto: “Beppe, continueranno a dirlo sempre, tutti: perché quella è stata una squadra unica”. Com’era unico Andy, per me».


Perchè unico, Bergomi?

«Lo è stato come amico, come compagno di squadra e, ovvio, come calciatore».

L’amico Andy

«Umiltà e umanità. Semplice, solare, gioioso, sapeva ridere: gli piaceva vivere. Io ero malato di Andy: ci sentivamo almeno due volte al mese, e se non gli rispondevo quando chiamava, erano messaggi di fuoco: “Testa di c..., dove hai il telefono?”».

Un tedesco italiano...

«In Germania era una specie di mito, ricordo il suo addio al calcio a Kaiserslautern: stadio non pieno, strapieno, non era voluto mancare anche Franco Baresi. Però lui amava l’Italia, veniva appena poteva e non vedeva l’ora di farlo. Aveva anche preso una casa a Bardolino con la nuova compagna, Susanna, sono andato a trovarlo due volte. Mi raccontò del libro che aveva scritto, quasi trecentomila copie vendute nel suo Paese: voleva tradurlo in italiano e presentarlo a Milano».

Il compagno di squadra

«Discorsi pochi, tanti fatti. Portò l’esperienza, lo spessore internazionale, che servivano ad una buona squadra per fare anche il salto europeo: e arrivò la Coppa Uefa, più di 25 anni dopo l’ultimo trofeo».

Il calciatore

«Diciamo pure il campione. Semplicemente, aveva tutto: sinistro e destro, cross, tiro, personalità. Palla a lui e sapevi di averla messa in banca».

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Non ambidestro, ma ambisinistro: giusto?

«Esattamente. Un mancino il destro non lo usa praticamente mai, e invece quello era il suo “plus”: lo chiudevi sul suo piede, lui andava sul destro e trovava Bianchi sull’altra fascia. Cito Cabrini perché è stato uno dei più forti della mia epoca, non Maldini perché lui era un destro adattato a sinistra: ecco, se chiedevi ad Antonio di cambiare gioco lanciando con il destro a cinquanta metri, non sapeva farlo: Andy sì».

E sapeva anche calciare rigori, con il destro...

«L’abbiamo scoperto a quel Mondiale. Vedo che va sul dischetto e mi dico: “Ma perché calcia lui? E con il destro?”. Da noi, non li aveva mai tirati: sempre Lothar».

Uno che le ha ricordato Brehme, negli ultimi vent’anni

«No, no: sinceramente, non ne ho visti e non ne vedo in giro».

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La sua partita più bella?

«Faticoso: a memoria dico Inter-Torino 2-0, l’anno dello scudetto. Nel gol del raddoppio, tutto Andy: recupero palla in scivolata e cross perfetto sulla testa di Serena, con deviazione di Brambati. A quei tempi si chiamava ancora autogol».

Il gol più bello?

«Il più importante: quello nella finale del Mondiale, per dire le palle che aveva quell’uomo».

Un ricordo che si porta nel cuore?

«Hotel Palace di Varese, a quei tempi andavamo in ritiro lì. Mi piaceva fare il giro delle stanze, trovo Brehme e Matthaeus sdraiati sul letto, con i libri di italiano in mano che si sforzano: cucchiaio... forchetta... coltello... “Che bravi”, mi dico. Poi vado in bagno e nel lavandino trovo una decina di birre, annegate nel ghiaccio. Non c’era il frigo bar, si erano arrangiati così...».

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