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Conte: “Inter? Volevano tetto del mondo con tanti soldi. Costo? Rido, io faccio guadagnare e…”

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La lunga intervista rilasciata dal tecnico del Tottenham a Sportweek

Gianni Pampinella

I due anni all'Inter, la nomea di allenatore che fa spendere e la scelta di accettare in corsa la panchina del Tottenham. Sono solo alcuni degli argomenti affrontati da Antonio Conte nel corso di una lunga intervista a Sportweek. "La Premier è il meglio che c’è sotto tutti i punti di vista. Ti migliora, ti spinge a dare il massimo. Ha un fascino irresistibile. Spettacolo, passione, organizzazione, investimenti, strutture: qui il calcio trova la sua massima espressione, dentro e fuori dal campo. Sapevo che prima o poi sarei tornato, magari non pensavo così presto… Meglio così per il mio inglese che è ancora fresco, non ho avuto bisogno di lezioni full immersion come cinque anni fa, quando venni al Chelsea. Per salire in alto servono stabilità e continuità di prestazioni e di risultati. Le montagne russe vanno bene al luna park, non in campo".

Ha lasciato l’Inter scudettata perché erano cambiati programmi e ambizioni. Cosa l’ha convinta ad accettare il Tottenham che l’anno scorso è finito settimo?

“Il presidente Levy ha dimostrato di volermi a tutti i costi. Nelle sue parole e negli investimenti fatti ho percepito una visione: la voglia di eccellere. Mi sono detto: se uniamo questa capacità fuori dal campo a quello che posso dare io in campo, si può davvero impostare un lavoro serio e profondo. Crescere e competere con gli altri grandi club inglesi. La squadra è giovane, ha ampi margini di miglioramento. Ma la concorrenza è spietata con i quattro colossi Chelsea, City, Liverpool, United. E poi Arsenal, West Ham, Everton…”.

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Lei l’ha definita la sfida più difficile della carriera. Già arrivare quarti quest’anno sarebbe un’impresa

“Non mi hanno mai spaventato le sfide, mi basta avere anche solo un 1% di possibilità di vincerle per iniziare la mia battaglia. Non ho mai preso squadre che avevano vinto l’anno prima, ma sempre percorsi di ricostruzione. La Juve veniva da un ottavo posto, il Chelsea da un decimo, l’Inter da un quarto. So che ci vorrà un po’ di pazienza stavolta. A Milano ho lasciato un lavoro finito. Qui devo ricominciare daccapo ed entrare a stagione in corso non è mai semplice”.

Lei però è uno che di solito va di corsa…

“Le grandi squadre si costruiscono nel tempo. Klopp nei primi anni a Liverpool non è entrato in zona Champions, ma gli hanno dato fiducia e anno dopo anno ha plasmato la squadra che poi l’ha vinta. Anche Guardiola il primo anno non ha vinto. Noi stiamo ripartendo dall’a-b-c, ma strada facendo conto di accelerare con le lettere dell’alfabeto. Il percorso è accidentato ma non mi spaventa, mi entusiasma”.

In Italia si dice: adesso Conte farà spendere tanto al Tottenham sul mercato…

“Mi viene da ridere. Mi lasci dire che io nella mia carriera alla fine ho sempre fatto guadagnare, non spendere. Ho spesso lavorato con giovani da formare, atleti svalutati o da ricostruire, calciatori che fino a quel momento non avevano mai vinto. Tutti giocatori che si sono rivalutati, grazie al mio lavoro. In carriera ho chiesto solo un giocatore che è stato pagato tanto…”.

Lukaku?

“Esatto. Lo chiesi in base agli obiettivi che mi erano stati presentati. I dirigenti dell’Inter vennero a casa mia a dirmi che volevano abbattere l’egemonia della Juve e portare l’Inter sul tetto del mondo, sfruttando grandi disponibilità economiche. Chiesi Lukaku ritenendolo fondamentale. Ma guardi anche a quanto è stato rivenduto: quasi il doppio. Come Hakimi. Ma potrei citare la valorizzazione di Barella, Bastoni, Lautaro, che prima del mio arrivo non giocava… Alla Juve ho avuto il piacere di lavorare con Barzagli, Bonucci e Chiellini: fenomeni, ma quando li avevo io ancora non avevano vinto nulla”.

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Vuol dire che si porta dietro un’etichetta sbagliata?

“Voglio dire che dove vado costruisco sempre qualcosa di importante e quando vado via lascio un solco, una cultura del lavoro, una organizzazione e una mentalità vincente. Mi spendo totalmente, anima e corpo per il club per cui lavoro. Fedele a quel motto degli All Blacks: ‘Lascia la maglia meglio di come l’hai trovata’. Io ho sempre lasciato case con fondamenta ben costruite dove altri, dopo di me, hanno avuto la possibilità di continuare a vincere, chi di più, chi di meno. Non è presunzione, sono fatti”.

L’impressione è che in Italia, nonostante le vittorie, lei avesse sempre qualche dito puntato contro. In Inghilterra invece ha unanimità di consensi

“In Italia in generale fatichiamo a dare i giusti meriti, quasi che le nostre eccellenze, in tutti i campi, diano fastidio. All’estero invece è il contrario. Io capisco che posso essere stato divisivo. Da giocatore ho vestito solo due maglie, quella del Lecce e della Juve, di cui sono stato il capitano. E visto che la Juve è amata dai suoi tifosi e odiata da tutti gli altri, capisco potessi suscitare anche antipatie. Ma da allenatore ho sempre detto che avrei allenato qualsiasi squadra, se ci fosse stato un programma serio e stimolante. E l’ho dimostrato. Dando tutto me stesso. L’esperienza in Nazionale mi ha avvicinato di più alla gente, ma il nostro è un problema culturale. In Inghilterra è tutto diverso, a partire dall’atmosfera intorno al calcio”.

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Provi a spiegarcela

“C’è un entusiasmo eccezionale, impagabile. Negli stadi arrivi col pullman e i tifosi avversari ti salutano, ti applaudono o comunque non ti insultano. C’è maggiore rispetto e considerazione del valore di chi lavora e ottiene dei risultati. La mia esperienza al Chelsea era stata apprezzata dagli addetti ai lavori, dai media e dai tifosi. E infatti in questi mesi senza squadra il mio nome è stato spesso accostato ai club inglesi, segno di stima per il tecnico e per l’uomo”.

Ma è solo una nostra impressione o davvero nel calcio inglese vanno al doppio della velocità e dell’intensità rispetto al calcio italiano?

“No, è vero. In partita come in allenamento. In Premier c’è molto meno tatticismo, si va a folate, qui la palla vola, lanciata da destra a sinistra: ne senti il sibilo in aria. In Italia siamo maestri di tattica, le squadre sono organizzate, ma più bloccate, schierate. I minori spazi a disposizione riducono anche l’intensità e la velocità. In Premier si gioca maggiormente a viso aperto. Questo rende le partite più spettacolari. E dal 65’ in poi, quando emerge un po’ di stanchezza, può succedere di tutto…”.

A proposito: non le ho ancora fatto la domanda sul suo ricco ingaggio…

“Perché conosce già la mia risposta: guadagno per quello che valgo, che produco, che costruisco, che vinco. Il valore di un professionista lo stabilisce la sua storia, i suoi risultati e il mercato che ha”.

Lei insiste molto sul concetto di sfida e dover costruire. Ma non le piacerebbe una volta tanto prendere una squadra che vince sempre da anni?

“Si vede che io sono fatto per scelte più difficili che richiedono uno sforzo maggiore. Ogni tanto me lo dico: sarebbe bello guidare una macchina che parte in pole position. Però alla fine mi va bene così. Ho valutato la scelta del Tottenham e ho trovato tutte le risposte che cercavo”.

(Sportweek)

 

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