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Bedin: “Ho marcato Pelè e bloccato Eusebio. Noi eravamo la Grande Inter. Herrera…”

Bedin: “Ho marcato Pelè e bloccato Eusebio. Noi eravamo la Grande Inter. Herrera…” - immagine 1
Intervistato dalla Gazzetta dello Sport, l'ex giocatore ricorda il successo di sessant'anni fa in Coppa dei Campioni
Gianni Pampinella Redattore 

A dieci giorni dalla finale di Champions League tra Inter e PSG, si torna a parlare della “Grande Inter” e di uno dei suoi protagonisti: Gianfranco Bedin. Intervistato dalla Gazzetta dello Sport, l'ex giocatore ricorda il successo di sessant'anni fa. "Nell’autunno del 1964. L’Inter gioca in casa contro la Dinamo Bucarest e vince 6-0. Nel ritorno riposano diversi titolari e un’ora prima della partita Herrera mi dice: “Cambiati, tocca a te”. Avevo 19 anni, giocavo un po’ più avanti e sono arretrato. Mi sono messo a fare il mediano, a marcare. Era un altro calcio: il 2 sull’11, il 5 sul 9, il 3 sul 7. Il 6 faceva il libero. Il 4 era la mia maglia, andavo sul 10".

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Una bella rogna. I numeri 10 allora erano veri 10. 

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"Sì, veri, difficili e spesso impossibili. Ho marcato Pelé, due volte contro il Santos. Quando c’era il derby, Gianni Rivera. Poi Gunther Netzer contro il Borussia Moenchengladbach ed Helmut Haller alla Juventus. Ne ho visti e seguiti tanti e forti. Soprattutto inseguiti, perché scappavano, sgusciavano via". 


E, 1965, l’anticipo sul mitico Eusebio, a San Siro. Inter-Benfica. Come sono i ricordi? 

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"Freschissimi, come se fosse ieri. Mamma mia! Ho giocato tre finali di Coppa dei Campioni, le due contro il Celtic nel 1967 e contro l’Ajax nel 1972 sono andate male, eravamo anche molto stanchi. Ma la vittoria contro il Benfica, quella sera, quella notte, mi ripaga di tutte le amarezze". 

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Non aveva ancora 20 anni, titolare. Cosa le disse il Mago? 

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"Aveva i suoi slogan. Tipo: “non credo alla sconfitta”. O “chi non dà tutto, non dà niente”. E noi abbiamo dato davvero tutto. L’anima, la maglia, il cuore". 

Marcando marcando, Gianfranco Bedin vince tre scudetti, una Coppa dei Campioni e una Intercontinentale. Non male. Grazie soltanto a Herrera? 

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"Grazie a tutti, dalla società ai compagni e ai tifosi. Eravamo qualcosa di speciale, eravamo la Grande Inter". 

Si dice spesso: quei giocatori avevano più fame. Ma è proprio così? 

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"Molti di noi erano poveri, come Jair in Brasile. Qualcuno veniva dalla miseria. Io a San Donà abitavo in una baraccopoli. La chiamavano “Mauthausen”. Quando pioveva entrava l’acqua in casa. Io da ragazzo andavo a fare il cottimista nella fabbrica delle carrozzine: più ruote montavo, più soldi portavo a casa. Il calcio era l’unica possibilità di fuga. Io volevo arrivare, sono arrivato. Di corsa e continuo a correre. Mai fermarsi".

(Gazzetta dello Sport)