Il rapporto tra Pellegrini e Brehme era davvero speciale?
«Sta sempre tutto dentro al concetto di padre. Si interessava della vita delle persone, anche quando smettevano di essere suoi dipendenti dal punto di vista lavorativo. Quando veniva a conoscenza che un suo ex giocatore era in difficoltà, lo sosteneva da tutti i punti di vista. Anche io ho sempre saputo che, se mai nella vita avessi avuto qualche tipo di problema – e può succedere a tutti, nessuno escluso –, ci sarebbe stato sempre un numero a cui chiamare, quello di Ernesto Pellegrini. Per fortuna, non ho avuto bisogno di farlo, ma non avrebbe mai lasciato solo né me né altri».
C’è un episodio che vi lega e che ricorda in particolare?
«Ero arrivato da pochissimo, ricordo la prima volta in cui entrò negli spogliatoi e i miei compagni scattarono tutti in piedi come soldati. In Germania non avevo avuto questa formazione, io rimasi istintivamente seduto. Poi vidi che anche Brehme e Matthäus si erano alzati e, senza capire bene il perché, feci lo stesso. Me lo spiegò dopo proprio Bergomi: era semplicemente rispetto per l’azienda che ci pagava e l’uomo che la rappresentava. Un piccolo gesto di cortesia, normale ma doveroso. Ho sempre pensato che la mentalità di Pellegrini venisse in qualche modo anche dal suo lavoro…».
In che senso?
«Il suo business erano le mense, cioè luoghi in cui si annullano le differenze. E, sempre con rispetto, stanno insieme il capo e l’ultimo dei lavoratori. Lui teneva molto a questo concetto e l’ho fatto mio anche nel mio lavoro di tecnico. Quando allenavo la nazionale americana, preparavamo il Mondiale 2014 nell’università di Stanford. Volevo che la squadra mangiasse nella caffetteria in mezzo a tutti gli studenti. Un mio giocatore mi chiese: “Perché, mister, non ce ne stiamo per i fatti nostri?”. E lì gli raccontai la storia di un mio vecchio presidente italiano… Stando al tavolo con altri lontani da te, impari sempre qualcosa».
Come è andata, invece, quando ha scelto di andare via dall’Inter?
«Il terzo anno era stato maledetto: Aldo era andato al Milan, Lothar spesso infortunato, avevo capito che il mio ciclo era finito. Andai da Pellegrini e gli dissi: “Preferisco lasciare adesso, ma vado soltanto all’estero…”. Lui capì subito, con il suo elicottero mi portò a Montecarlo per firmare col Tottenham. Ma la frequentazione è stata così assidua negli anni che mi sembra sia sempre rimasto il mio presidente. Anzi, il nostro presidente: lo stesso sentimento, lo stesso legame nel tempo, è comune a tutti: Zenga, Ferri, lo Zio, Berti, nessuno escluso».
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