Come giudica la decisione di Inzaghi?
«Non è un fulmine a ciel sereno, un po’ me l’aspettavo. Non entro nel merito della sua volontà di lasciare l’Inter, avrà le sue buone motivazioni sulle quali non è corretto esprimersi. Ma aggiungo che a lui il club nerazzurro ha dato tanto, perché gli ha permesso di giocare addirittura due finali di Champions, e che questo non è il miglior periodo per l’ambiente dopo le sberle che ha preso dal Paris Saint Germain. Magari qualche giorno in più di riflessione, qualche colloquio in più...».
Il bilancio di Inzaghi con l’Inter è positivo o negativo?
«Guardiamo ai risultati: quattro campionati e un solo scudetto, nonostante avesse sempre il gruppo più forte, con tanti giocatori di alto livello e profumatamente pagati. Due finali di Champions League, entrambe perse. L’ultima, addirittura, in modo traumatico. Non mi sento di dire che il percorso è stato positivo, anche se devo ammettere che, da quando è arrivato dalla Lazio, Inzaghi è cresciuto parecchio come allenatore. Gli è mancato il salto decisivo».
In che cosa consiste il salto decisivo?
«Non tanto nel raggiungimento dei risultati, quanto nel gioco. Perché è poi il gioco che ti fa conquistare i successi. Lui è rimasto a metà strada: cresciuto nel solco della tradizione italiana, tutta basata sulla difesa e sul contropiede, ha provato a diventare un tecnico “europeo”, però non ci è mai riuscito completamente».
Che cosa intende?
«Che la sua squadra, per quanto a tratti esprimesse un bel gioco, mi ha sempre dato l’impressione di voler conservare, anziché innovare. Contro il Psg ne ha messi otto nella sua area, logico che prima o poi prendesse il gol... E lo stesso atteggiamento aveva avuto contro il Bayern e contro il Barcellona. In quei casi gli era andata bene, e tutti lo avevano elogiato. Contro il Psg no. Ma questa mentalità è figlia della tradizione italiana dalla quale Inzaghi fatica a staccarsi. Quando capiremo che il calcio è uno sport collettivo e non individuale sarà sempre troppo tardi».
Un sostenitore di Inzaghi potrebbe dire: ha sempre tenuto l’Inter ad alti livelli sia in Italia sia in Europa.
«Ci mancherebbe altro, ma andate a guardare quanto spende il club per mantenere quel gruppo di giocatori! Io sostengo da sempre che le vittorie devono essere figlie del gioco, e non soltanto dei giocatori che hai a disposizione. Quando Spalletti ha vinto lo scudetto con il Napoli aveva una squadra di semisconosciuti, che lui è stato capace di valorizzare e di far rendere al massimo. L’attacco dell’Inter, invece, in quel campionato, era composto da Lukaku, Lautaro e Dzeko. Non so se mi spiego... E i nerazzurri, in quel torneo, sono arrivati terzi: ha fatto meglio di loro pure la Lazio».
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