In che cosa consiste il salto decisivo?
«Non tanto nel raggiungimento dei risultati, quanto nel gioco. Perché è poi il gioco che ti fa conquistare i successi. Lui è rimasto a metà strada: cresciuto nel solco della tradizione italiana, tutta basata sulla difesa e sul contropiede, ha provato a diventare un tecnico “europeo”, però non ci è mai riuscito completamente».
Che cosa intende?
«Che la sua squadra, per quanto a tratti esprimesse un bel gioco, mi ha sempre dato l’impressione di voler conservare, anziché innovare. Contro il Psg ne ha messi otto nella sua area, logico che prima o poi prendesse il gol... E lo stesso atteggiamento aveva avuto contro il Bayern e contro il Barcellona. In quei casi gli era andata bene, e tutti lo avevano elogiato. Contro il Psg no. Ma questa mentalità è figlia della tradizione italiana dalla quale Inzaghi fatica a staccarsi. Quando capiremo che il calcio è uno sport collettivo e non individuale sarà sempre troppo tardi».
Un sostenitore di Inzaghi potrebbe dire: ha sempre tenuto l’Inter ad alti livelli sia in Italia sia in Europa.
«Ci mancherebbe altro, ma andate a guardare quanto spende il club per mantenere quel gruppo di giocatori! Io sostengo da sempre che le vittorie devono essere figlie del gioco, e non soltanto dei giocatori che hai a disposizione. Quando Spalletti ha vinto lo scudetto con il Napoli aveva una squadra di semisconosciuti, che lui è stato capace di valorizzare e di far rendere al massimo. L’attacco dell’Inter, invece, in quel campionato, era composto da Lukaku, Lautaro e Dzeko. Non so se mi spiego... E i nerazzurri, in quel torneo, sono arrivati terzi: ha fatto meglio di loro pure la Lazio».
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