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Inter, il dott. Volpi: “Ho contratto il Coronavirus in ospedale. Il corpo non rispondeva più”

Il medico sociale nerazzurro ora sta meglio e ha raccontato la sua esperienza ai microfoni della Gazzetta dello Sport

Daniele Vitiello

Piero Volpi, responsabile dell’area medica dell’Inter, nonché direttore dell’Unità Operativa Ortopedia dell’Humanitas di Milano, ha contratto il Coronavirus ed ora sta lottando per mandarlo via. Lo ha raccontato ai microfoni della Gazzetta dello Sport: «Ora sto meglio. Ho lasciato l’ospedale, sono a casa. Sono in isolamento, con la mascherina e tutte le precauzioni possibili per chi vive con me. Non posso ancora dire di aver sconfitto il Covid-19: dopo la quarantena di 14 giorni, farò due tamponi che mi diranno se ne sono uscito».

Quando ha capito di essere infetto?

«Per una settimana ha convissuto con sintomi lievi, qualche colpo di tosse, nulla di più. Pian piano però il malessere aumentava. E ho compreso. Ho contratto il virus in ospedale, come è capitato a molti miei colleghi. Il 27 marzo mi sono ricoverato. E le dico una cosa: è un’esperienza che non auguro a nessuno».

Racconti.

«I primi quattro giorni sono stati durissimi. Sembrava di vivere in un’altra dimensione: la testa era lucida, ma il corpo non rispondeva più, come si fosse spento il computer. Non avevo più appetito, faticavo a respirare e persino a muovermi. Usavo l’ossigeno, sono stato curato con antivirali e antibiotici. Il tutto in totale isolamento: l’unico contatto vero con il mondo esterno era il mio cellulare. Con gli stessi medici o infermieri non ci poteva essere dialogo, con quegli scafandri che indossavano per proteggersi».

Cosa le lascia, questo incubo?

«Innanzitutto un segno di rispetto assoluto per quei miei colleghi, e purtroppo ce ne sono tanti, che non ce l’hanno fatta. E poi, mi sento di aggiungere: c’è una totale distanza tra la realtà vera e quella percepita, in questa tremenda storia».

Cosa intende dire?

«Solo chi ha visto con i propri occhi quanto accade dentro un ospedale di questi tempi, può davvero capire. La realtà è molto differente, molto lontana dai numeri quotidiani che ascoltiamo dai bollettini. E questo mio discorso vale per tutte le componenti, anche quelle sportive: il rischio è che si tenda a sottovalutare l’emergenza che stiamo ancora affrontando».

Come se ne esce, almeno per lo sport?

«In un solo modo: siano le autorità scientifiche – e in Italia abbiamo delle eccellenze – a dettare l’agenda. Il cronoprogramma spetta a loro e a nessun altro, siano loro a dirci se e quando riprendere l’attività. Poi in un secondo momento entreranno in gioco anche i medici sportivi, certo, con tutta l’attività di prevenzione».

In realtà una data per la ripresa ci sarebbe già: il 4 maggio.

«Non è giusto definirli ora, i tempi. Questa è un’emergenza che non può portare a ragionare sul lungo, ma neppure sul medio periodo. Guardi quel che è successo nell’ultimo mese: molte dichiarazioni, molte scadenze, sono poi state superate dai fatti, fino ad arrivare al lockdown. Ecco perché dico: non si pensi adesso a una data, ma si ragioni a strettissimo giro di posta. Nel caso del 4 maggio, per esempio, si potrà valutare con certezza solo alla fine di aprile se sarà possibile davvero una ripresa».

C’è chi spinge in altra direzione, però...

«Abbiamo a che fare con la salute, i rischi sono enormi, qui ci sono in ballo le vite delle persone. E nel caso di una squadra che deve giocare, ci sono 60 o 70 famiglie da proteggere. Ci guidi la scienza, non altro».

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