editoriale

C’è un grande allenatore all’Inter, ma anche un fantasma da scacciare subito

Passata la fase più acuta della tempesta emotiva subìta lunedì sera, che ha condotto molti interisti al ricorso obbligato a farmaci miorilassanti per evitare danni materiali da rabbia cieca dopo 90 minuti (più altri maledetti 4) di fuoco, è...

Lorenzo Roca

Passata la fase più acuta della tempesta emotiva subìta lunedì sera, che ha condotto molti interisti al ricorso obbligato a farmaci miorilassanti per evitare danni materiali da rabbia cieca dopo 90 minuti (più altri maledetti 4) di fuoco, è opportuno decifrare i numerosi segnali che lo sfortunato duello borbonico ha fornito.

Chi si aspettava un’Inter in balìa della banda del divertimento di Sarri è rimasto molto deluso. Chi ha detto che l’Inter ha giocato meglio in 10 che in 11 non conquista il mio consenso. Andare sotto di un gol dopo un minuto a Napoli è un ceffone che stenderebbe un ciclope. Ma la prima frazione giocata dai nerazzurri ha rivelato grande solidità e convinzione nei propri mezzi. Con il passare dei minuti la squadra è cresciuta moltissimo, compatta, solida, ha spento via via l'ardore partenopeo mutuato dal gol di Higuaìn. Lo ha fatto in modo fosco, criptico ma tremendamente efficace, costruendo le basi per un secondo tempo in crescita. Spesso gli allenatori valicano il confine tecnico e si avventurano in volteggi verbali un po' azzardati per le loro capacità dialettiche. Così anche Sarri: «In 11 contro 11 avremmo vinto facilmente». Deduzione da bar tabacchi un po’ presuntuosa e poco adeguata al reale, visto l’andazzo del match. Un’umile ammissione di beneficio di ventura sarebbe stata più opportuna, vedi De Laurentiis (“Abbiamo vinto nel finale grazie al culo”).

L’Inter sta crescendo, la partita fa giustamente gonfiare pettorali e bicipiti nerazzurri, ma il vigore affermativo della propria possanza va dosato con estrema cautela, perché se è vero che la prestazione gagliarda del San Paolo dimostra che la squadra c’è eccome, altrettanto cristallino però è il fatto che dopo una sconfitta ci sia la necessità di rimettersi subito in marcia per scacciare l’aleggiante e minaccioso fantasma del doppio palo finale che, in caso di flessione, rischia di diventare un onnipresente fardello mentale nelle teste dei giocatori.

La bella notizia è che l’Inter finalmente ha un grande allenatore, che ha dato corpo e anima a una squadra completamente rivoluzionata appena 4 mesi fa e che sa dove intervenire per rendere la corazzata ancor più stagna. Mancini sta dimostrando inoltre una cosa ancor più determinante: non basta fare la spesa per migliorare una squadra, ma servono soprattutto idee e capacità di leggere le partite. L’impressione è che l’Inter sia sulla retta via, ci siamo quasi, vanno migliorate ancora alcune zone del campo che necessitano di interpreti più adeguati al Mancini-pensiero: le fasce laterali andrebbero puntellate con un giocatore di esperienza e spessore (Ivanovic?). L’espulsione di Nagatomo a Napoli è paradigmatica in tal senso. Indubbiamente molto fiscale, ma ci sta tutta. L’errore vero è l’imprudenza del giapponese che affossa una squadra che in 11 avrebbe recitato un secondo tempo probabilmente ancora migliore, lasciando a Mancini i cambi per modificare l’assetto e non per tamponare una falla.

In mezzo al campo serve come l’aria qualcuno che si imponga a livello tattico, un giocatore pensante, che detti i tempi e capisca quando è il momento di accelerare e quando tirare il freno. Ben venga il centrocampo muscolare al servizio di un attacco brioso, ma non può essere l’unica impronta del reparto. Kondogbia può diventarlo ma non è la sua natura, Brozovic sarebbe il primo a giovarsi di un metronomo, Guarìn è un giocatore che va a strappi, gioca partite parallele, impossibile da “educare” tatticamente, Medel e Melo infine hanno altre caratteristiche.

In attacco è discusso protagonista Mauro Icardi, spesso avulso dal gioco e a volte troppo incline alla favella. Al San Paolo si è nitidamente vista la differenza tra un centravanti che fa la differenza mettendosi al servizio della squadra (Higuaìn) e un altro che aspira a diventare tutto ciò (Icardi). Il valore di Maurito non è in discussione, ma la sua attitudine ad apprendere silenziosamente laddove non eccelle va rivista e foraggiata. Fuorviante asserire che "il gioco non lo aiuta", è un'argomentazione molto flebile. Luca Toni ha segnato 22 gol come Icardi lo scorso anno ma non mi risulta che l'Hellas facesse gioco offensivo in stile Barça e producesse 80 palle gol a partita. Poco utile anche dire “non arrivano palloni”, frase peraltro sgarbata nei confronti della ciurma. Lo potevano dire forse Roberto Pruzzo o Paolo Rossi negli anni 80, ora il calcio per un centravanti è ben altro che una mera questione di approvvigionamento: movimenti, sponde, lettura del gioco, sacrificio. Lo ha fatto alla grande Adem Ljajic nel secondo tempo pur non essendo “di ruolo”. Troppo facile ora però criticare il capocannoniere dell’anno passato, così come facile sarebbe saltare sul carro pro-Ljajic. Mi limito a ricordare alcuni tifosi interisti che l’ultimo giorno di mercato agostano si lagnavano per il mancato acquisto di Eder… 

In un campionato dove le squadre si sciolgono improvvisamente come neve al sole e dove per me resta principale candidata per il titolo la Juventus, è indispensabile tenere la testa sempre a quello che sarà e non a ciò che è stato o sarebbe potuto essere.