Intervistato da SportWeek, Beppe Bergomi sottolinea l'importanza che riveste un capitano in una squadra
Quanto è importante il ruolo di un capitano in una squadra? A questa domanda ha risposto Beppe Bergomi, il capitano per eccellenza. "Io l’ho messa nell’anno dello scudetto. All’inizio la condividevo con Beppe Baresi, che poi scivolò in panchina. Poi sono stato capitano fisso dal ’92 fino alla chiusura della carriera. Ero il capitano di una grande squadra, in cui ero partito dalle Giovanili. Per me era motivo di orgoglio. Io mi sono sempre ritenuto un leader silenzioso. Preferivo che a parlare fossero i miei comportamenti: in allenamento “tiravo” il gruppo, andavo via per ultimo dal centro sportivo, cercavo di inculcare il senso di appartenenza, il significato di indossare una maglia tanto importante, ai giovani e agli stranieri che arrivavano. La prima cosa che facevo, durante i ritiri estivi, era di andare nelle loro camere", ricorda Bergomi intervistato da SportWeek.
"Una sera entro in quella di Matthaus e Brehme. La porta del bagno è aperta, il lavandino è pieno di cubetti di ghiaccio, in mezzo al ghiaccio bottiglie di birra». E lei? «Che dovevo fare? “Datene una anche me” , dissi. Però erano lì che studiavano, libro di italiano in mano: “cucchiaio”, forchetta”, imparavano le prime parole, quelle basilari per poter almeno comunicare. E io seduto accanto a loro sul letto ad aiutarli a ripetere e memorizzare. Ai miei tempi il capitano serviva anche a quello, come pure a dare una mano a cercare casa o semplicemente ad ambientarsi in città. Bergkamp, per esempio: era timidissimo, io e mia moglie portavamo lui e la sua a cena fuori. Un altro era Sammer: bravissimo ragazzo, ma arrivava dalla Germania Est. Cultura e stile di vita troppo diversi, nonostante gli sforzi anche miei non riuscì ad ambientarsi. Tanto è vero che, arrivato in estate, a gennaio andò via".