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Il caso Eriksen, la frase di Conte e perché il danese non è venuto a salvare l’Inter

Il giocatore danese è arrivato alla fine del mercato di gennaio

Sabine Bertagna

Per la prima volta Antonio Conte ha parlato, dopo la sconfitta all'Olimpico, di miglioramento dei singoli. Lo ha fatto dopo aver elogiato l'impegno collettivo della squadra, che era riuscita ad andare in vantaggio. Più che in altre partite meno positive, quella contro la squadra di Inzaghi ha infatti evidenziato imprecisioni e nervosismi di troppo. In tutti i reparti. C'era nervosismo nella coppia d'attacco, finora esemplare nel legare e ricamare feeling fuori e dentro al campo. C'era estremo nervosismo in difesa, con Padelli che si muove diversamente da Handanovic e con i difensori che preferiscono anticiparlo salvo poi incartarsi in qualche pasticcio nella propria area. C'era nervosismo anche a centrocampo, con passaggi poco precisi e posizioni meno corrette del solito. Nervosismi e fragilità. Per uno come Conte dettagli che non possono passare in secondo piano. Per uno come Conte quella è stata una serata nella quale la sua Inter si è dimostrata meno squadra del solito. Più sfilacciata. Meno compatta.

Ma il tema di questi ultimi giorni è uno soltanto. Si scrive Christian Eriksen e si legge caso. Anche l'Ansa si è scomodata per parlarne in termini che suonavano come un rimprovero. Perché Antonio Conte non fa giocare Eriksen per 90 minuti? Perché l'arrivo più atteso e osannato del calciomercato invernale è spesso seduto in panchina? Perché il danese non ha ancora inciso? A centrocampo l'equilibrio è piuttosto delicato, a centrocampo forse più che in altre zone strategiche del campo gli automatismi e i movimenti richiesti da Conte (e sottolineati nel corso delle partite da un incessante gesticolare su dove e come prendere posizione) vanno assimilati con meno fretta e più concentrazione. Il tempo che Conte si sta prendendo potrebbe essere una fisiologica fase per introdurre il danese nella sua idea di gioco. Per metterlo nelle condizioni di brillare subito. Evitando quella parte in cui il giocatore entra atteso come un messia, sbaglia e passa velocemente ad essere etichettato come un nuovo fallimento di mercato. Eppure Conte questo lo aveva già detto. Inserendolo nel derby aveva fatto una cosa che non è nella sua natura di allenatore. Forzare i tempi.

Perché forse Conte ha capito che all'Inter il peso del giudizio stronca con meno delicatezza. La crisi è sempre dietro all'angolo. Oggi le vinci tutte ma la prima che pareggi ti definisce immediatamente per gli errori commessi, il modulo sbagliato, le sostituzioni che non hai fatto. L'intelligenza e le qualità di un calciatore come Eriksen non possono essere messe in discussione 21 giorni e 89 minuti (giocati) dopo il suo arrivo. Christian Eriksen non può neanche essere l'unica risposta ad una partita giocata male o ad una serata no, soprattutto se non è ancora giudicato pronto per affrontarle. La frase pronunciata da Conte che ha fatto sobbalzare tutti dalla sedia non è in realtà altro che un giusto prendere le distanze dalle affermazioni troppo grosse. Eriksen non è venuto a salvare l'Inter. Eriksen è venuto a portarla ancora più in alto. In un sistema di squadra che funziona e deve funzionare senza troppe dipendenze da singoli giocatori. E questo a Conte non è mai stato così chiaro come in questa stagione nerazzurra puntellata da infortuni singolari.

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